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Distrattamente ficcai il pacchetto nella tasca della giacca. Cominciai a riflettere. Quell’individuo se n’era proprio andato, e nessuno poteva restituirmi la sua immagine. Ah, se solo fosse venuto a tentarmi in un’altra notte, quando la mia anima non fosse stata sofferente e stanca, quando me ne fosse importato almeno un poco… Almeno quanto bastava per capire di che cosa si trattava.

Ma già sembrava passata un’eternità da quand’era andato e venuto. La notte era silenziosa tranne che per il tumulto della città e lo sciabordio del mare. Anche le nuvole s’erano assottigliate e stavano scomparendo, mentre il cielo sconfinato appariva di un’immobilità straziante.

Mi voltai a guardare le stelle luminose e severe, lasciandomi avvolgere in silenzio dallo scroscio basso delle onde. Lanciai un ultimo sguardo carico d’angoscia alle luci di Miami, la città che tanto amavo.

Quindi m’innalzai in volo, così, semplicemente come un pensiero che nasce, così veloce da risultare invisibile a un occhio mortale. Attraverso il fragore del vento salii sempre più in alto, finché la grande distesa della città non fu altro che una galassia lontana che, a poco a poco, svaniva.

Era così freddo, quel vento d’alta quota che non conosceva stagioni. Dentro di me il sangue si era assorbito completamente, come se il suo dolce calore non fosse mai esistito. A cominciare dal viso e dalle mani, una patina di gelo mi ricoprì la pelle sotto gli abiti leggeri, trasformandomi in un pezzo di ghiaccio.

Ma quello non mi causò sofferenza. Almeno non molta.

Era solo triste, perché inibiva ogni sensazione di benessere, fino a rappresentare la totale assenza di tutto ciò che conferisce valore all’esistenza: il calore ardente del fuoco e delle carezze, dei baci e dei discorsi, dell’amore, del desiderio e del sangue.

Gli dei aztechi dovevano essere avidi vampiri per riuscire a convincere quelle povere anime umane che l’universo avrebbe cessato di esistere, se non fosse scorso il sangue. Immaginate di presiedere uno di quegli altari e d’immolare una vittima dopo l’altra, di portarne alle labbra i cuori grondanti di sangue e spremerli, come freschi grappoli d’uva.

Roteavo, rigirandomi nel vento. Mi lasciavo cadere di pochi metri per poi librarmi di nuovo, con le braccia tese, quindi mi lasciavo ricadere di lato, o giacevo sulla schiena come un sicuro nuotatore, volgendomi per l’ennesima volta a osservare le stelle cieche e indifferenti.

Con la sola forza del pensiero, mi spinsi verso oriente. Sulla città di Londra dilagava ancora la notte, sebbene i suoi orologi avessero già segnato le ore piccole. Londra.

Avevo tempo per salutare David Talbot, il mio amico mortale.

Erano passati mesi dal nostro ultimo incontro ad Amsterdam, quando l’avevo lasciato in malo modo. Vergognandomene profondamente, da allora l’avevo solo spiato, senza importunarlo. Sapevo che in quel momento, quale che fosse il mio umore, dovevo andare da lui. Era la cosa giusta da fare ed ero sicuro che lui lo voleva.

Per un momento pensai al mio adorato Louis. Senza dubbio si trovava a New Orleans, nel giardino paludoso della sua piccola casa in rovina, e, come sempre, stava leggendo, alla luce della luna, o a quella di una tremolante candela, nel caso la notte fosse scura e nuvolosa. Ma era troppo tardi per andare a salutare Louis… Se in mezzo a noi c’era un essere che avrebbe capito, quello era proprio Louis. O almeno così dissi a me stesso, anche se il contrario era probabilmente più vicino alla verità… Arrivai su Londra.

2

La Casa Madre del Talamasca si trovava fuori Londra, immersa nel silenzio di un grande parco di querce secolari, coi suoi tetti obliqui e gli ampi prati coperti da una spessa coltre di candida neve. Era un bell’edificio di quattro piani scandito da finestre a colonnine piombate e irto di camini da cui senza posa s’innalzavano, nella notte, sinuosi pennacchi di fumo.

Al suo interno, biblioteche e salotti rivestiti di legno scuro, camere da letto dai soffitti a cassettoni, spessi tappeti color borgogna e sale da pranzo silenziose come potrebbero essere quelle di un monastero. I suoi mèmbri, devoti come monache o sacerdoti, possono leggere nella tua mente, vedere la tua aura, predirti il futuro dal palmo della mano, elaborare un’ipotesi fondata sulla tua identità in una vita passata.

Streghe? Maghi? Alcuni di loro lo sono, forse. Ma nel complesso si tratta di semplici studiosi che hanno dedicato la loro vita a indagare l’occulto in ogni sua manifestazione. Alcuni sanno più di altri. Alcuni credono più di altri. In questa Casa Madre, per esempio — e in quelle di Amsterdam, Roma o del cuore paludoso della Louisiana —, alcuni mèmbri hanno rivolto la loro attenzione a vampiri e lupi mannari; hanno percepito la forza telecinetica potenzialmente letale dei mortali in grado di appiccare fuoco o di provocare morte; hanno parlato con gli spiriti, ricevendone risposte; hanno combattuto entità invisibili e hanno vinto o perso.

Tale ordine esiste da oltre un migliaio di anni. Di fatto è ancora più antico, ma le sue origini rimangono avvolte nel mistero. O, per essere precisi, David non ha intenzione di parlarmene.

Ma il Talamasca da dove prende il suo denaro? L’abbondanza di oro e gioielli che nasconde nelle sue segrete è sbalorditiva, e sono leggendari gli investimenti nelle grandi banche d’Europa. In tutte le città dove ha sede, conta proprietà che sarebbero in grado di garantirne, da sole, il mantenimento. Per non parlare dei numerosi tesori di genere documentario: dipinti, statue, arazzi, antichi arredi e oggetti ornamentali, tutti acquisiti in occasione di varie investigazioni occulte e ai quali non si può attribuire il minimo valore commerciale, giacché il loro valore storico supererebbe di gran lunga qualsiasi stima.

Già la biblioteca varrebbe una somma enorme in qualsiasi valuta. Contiene manoscritti in tutte le lingue, alcuni provenienti addirittura dalla famosa biblioteca di Alessandria, altri dalle biblioteche dei catari, la cui cultura si è ormai estinta. Raccoglie testi dell’antico Egitto (certi archeologi sarebbero disposti a uccidere per dar loro anche soltanto un’occhiata) e scritti redatti da esseri soprannaturali di diverse specie conosciute, vampiri compresi. Alcune lettere e vari documenti di quegli archivi sono opera mia.

Nessuno di tali tesori m’interessa, ne mai mi ha interessato. Certo, nei momenti più sereni mi sono trastullato con l’idea di fare irruzione nei sotterranei e di riscattare alcuni vecchi cimeli appartenuti a immortali che avevo amato. So che quegli studiosi hanno raccolto beni che io stesso ho abbandonato: quelli delle stanze che occupavo a Parigi verso la fine dell’Ottocento, i libri e gli arredi della mia vecchia casa nel Garden District, sotto la quale ho dormito beatamente per decenni, dimentico di coloro che camminavano sugli sconnessi impiantiti sovrastanti. Solo Dio sa che altro hanno salvato dalle mani rapaci del tempo.

Ma non mi curavo di quelle cose. L’ordine poteva tenersi tutto ciò che era riuscito a recuperare.

Quello che davvero m’interessava era David, Generale Superiore dell’ordine e mio amico da quella notte di molto tempo prima in cui io avevo fatto irruzione nel suo appartamento privato attraverso una finestra del quarto piano.

Che dignità e fermezza aveva dimostrato. E come mi era piaciuto stare a guardare quell’uomo alto, dal volto profondamente segnato e dai capelli color grigio ferro. Mi chiesi allora se un giovane potesse mai ambire a quel tipo di bellezza. Lui mi conosceva e sapeva che cos’ero: proprio in quello consisteva per me il suo fascino più grande.

Vorresti diventare uno di noi? Posso farlo, lo sai…

Mai è vacillato in tale suo convincimento. «Non accetterò neppure sul letto di morte», diceva; non poteva tuttavia nascondere di essere affascinato dalla mia presenza, sebbene fin dal primo momento fosse riuscito molto bene a mascherare i propri pensieri.