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— Cosa significa questo? — chiese la strega.

Nessuno rispose.

— Cosa significa, ho detto — gridò lei. — Rispondete, luridi parassiti, o volete che il mio nano vi tiri fuori la lingua a suon di frustate? Cos’è questa baldoria, queste leccornie, questi sprechi? Dove avete preso le vivande? Dove le avete rubate?

— No, Maestà — rispose la volpe — nessun furto. Ce le hanno regalate. Posso essere così audace da bere alla salute…

— Chi vi ha fatto questi regali? — gridò ancora la strega.

— B-b-babbo N-n-natale — balbettò la volpe.

— Cosa? — ruggì la Strega Bianca, scendendo di scatto dalla slitta. Con pochi e rapidi passi si portò vicino al gruppetto di creature terrorizzate. — Non è possibile che sia arrivato qui, non è assolutamente possibile!

In quel momento uno dei piccoli scoiattoli perse completamente la testa, e battendo il cucchiaio sulla tavola si mise a gridare con allegria: — Sì… sì… è stato lui, è stato lui.

Edmund vide che la Strega Bianca si mordeva le labbra al punto che all’angolo della bocca apparve una goccia di sangue.

Poi lei alzò la bacchetta magica.

— Oh, no, per favore, no! — gridò Edmund.

Ma già la bacchetta si muoveva nell’aria. Si può dire che il ragazzo non avesse ancora finito di gridare, e dove prima c’era un’allegra brigata non rimasero che statue di marmo. Creature di pietra sedevano attorno a una tavola di pietra, davanti a piatti di pietra, impugnando forchette di pietra (uno ce l’aveva addirittura in bocca), intente a mangiare una bellissima crostata di prugne di pietra.

— E questo è per te — disse la strega, rifilando un ceffone in pieno viso al ragazzo. — Così un’altra volta impari a chiedere pietà per le spie e i traditori.

Per la prima volta in vita sua, Edmund provò un gran dolore non per sé ma per altre creature. Era tristissimo vedere le figurine di pietra e pensare che sarebbero rimaste immobili e silenziose, nella luce del sole o nel buio della notte, per giorni e giorni, anni e anni, ricoperte di muschio e corrose da capo a piedi, mentre persino le facce stupite sarebbero cadute in pezzi…

Ripresero il viaggio.

Ben presto Edmund si rese conto che la slitta, nella sua corsa, gli schizzava in faccia neve fradicia, meno bianca e certo meno fredda. Anche l’aria era più mite e stranamente nebbiosa, una cortina che diventava via via più fitta, mentre la corsa della slitta rallentava. Dapprima Edmund pensò che fosse colpa delle renne: dovevano essere stanche, dopo tutto. Il nano continuava a frustarle senza pietà, ma la slitta andava sempre più lenta: traballava, sbandava e riprendeva con tremendi sobbalzi, come se urtasse nei sassi. Intanto nell’aria si diffondeva uno strano rumore che Edmund non riuscì a distinguere bene, tanto erano forti gli scossoni, lo schioccar della frusta e le grida del nano.

Di colpo la slitta si fermò: sembrava che avesse deciso di non muoversi mai più. Ci fu un attimo di silenzio totale in cui Edmund riuscì a cogliere lo strano rumore. Non troppo strano, però, perché gli sembrò di averlo già sentito altre volte e di riconoscerlo. Era un fruscio dolce e continuo, un mormorio argentino. Ma sì (e il cuore gli diede un tuffo di gioia): era il rumore dell’acqua che scorre. Anche se non poteva vederli, Edmund sentiva che tutt’intorno c’erano rigagnoli d’acqua viva, ruscelli e torrenti, e più lontano la voce del fiume e il rombo possente della cascata. Forse il ragazzo non se ne rese conto all’istante, ma intuì che il lungo gelo invernale era finito. Alzò gli occhi e vide un grosso blocco di neve che scivolava giù dal ramo di un albero, lasciandolo libero e verdissimo. Era la prima volta, nel bosco di Narnia, che Edmund vedeva un ramo d’abete senza il mantello di neve. Ma non c’era tempo per la contemplazione. La strega tuonò: — E tu, sciocco, va’ a dare una mano.

Edmund, naturalmente, dovette obbedire. Scese dalla slitta che si era incagliata in una buca melmosa e cominciò ad aiutare il nano che si sforzava di smuoverla. Non fu facile e ci riuscirono solo dopo un bel po’: intanto sguazzavano coi piedi in quella che non era più neve ma fanghiglia acquosa, mentre dai rami degli alberi scendevano mille goccioline con un plif-plif gentile.

La slitta riprese a correre, ma ormai i segni del disgelo si facevano troppo evidenti. Qua e là, e sempre più spesso, apparivano larghe chiazze di verde.

Poi si bloccarono di nuovo.

— Non si può più andare avanti — disse il nano. — Maestà, la slitta non è fatta per questo pantano.

— E allora andremo a piedi — dichiarò la strega.

— Così non li raggiungeremo mai — brontolò il nano. — Devono avere già un buon vantaggio.

— Sei il mio schiavo o il mio consigliere? — gridò l’altra. — Fai come ti ho detto. Giù dalla slitta, lega le mani dell’essere umano con una corda e prendi la frusta. Taglia le redini delle renne: torneranno a casa da sole.

Il nano obbedì e il povero Edmund si trovò costretto a camminare con le mani legate dietro la schiena; il nano teneva un capo della corda e appena il ragazzo rallentava il passo gli faceva assaggiare la frusta. Edmund procedeva più svelto che poteva, ma gli capitava spesso di scivolare nella fanghiglia o sull’erba umida, e allora sentiva il sibilo della frusta e la voce della strega che ripeteva: — Più in fretta, più in fretta.

Le chiazze d’erba si facevano sempre più frequenti e sempre più ampie. Via via che gli alberi si spogliavano della neve, ecco che apparivano i rami nudi delle querce, dei faggi e degli olmi. La nebbia, che in un primo momento si era infittita, ora cominciava a diradarsi, facendosi vagamente dorata. Sul terreno apparivano macchie di sole qua e là, e nel cielo larghi squarci d’azzurro.

Ma stavano per accadere cose anche più sorprendenti. Scendendo verso la radura passarono davanti a un boschetto di argentee betulle dove il terreno era cosparso di innumerevoli fiori gialli: le celidonie. Dal rumore crescente dell’acqua si capiva che il fiume era sempre più vicino, e infatti dopo poco lo videro. Sull’altra sponda Edmund scorse dei bucaneve e girò la testa per vederli meglio.

— Bada a camminare, tu. Non guardare in giro — gridò il nano, con un violento strattone che torse malignamente la corda.

Ma Edmund non poteva impedirsi di vedere quello che aveva davanti agli occhi. Più in là, ecco un grande albero ai piedi del quale spuntavano i fiori del croco nei loro splendidi colori bianco, viola e giallo dorato. E infine non si trattò solo di vedere, ma di sentire: era un suono più delizioso del mormorio dell’acqua corrente. Sul ramo di un albero un uccellino cinguettò e un altro gli rispose da lontano. Fu come un segnale: in pochi minuti si levarono altri cinguettii e altri trilli e gorgheggi, prima sommessi e timidi, poi sempre più sicuri e sonori. Il bosco echeggiò di una melodia meravigliosa: bastava che Edmund girasse un momento lo sguardo ed ecco apparire un uccello su un ramo, un altro che volteggiava nell’aria ad ali spiegate, altri due che si inseguivano saltellando o semplicemente si lisciavano le piume col becco.

— Più in fretta. Più in fretta! — gridava la strega.

La nebbia era ormai sparita del tutto. Il cielo era di un bell’azzurro intenso, solcato di tanto in tanto da un’ultima nuvoletta frettolosa. Nelle radure fiorivano primule a migliaia. Una brezza leggera e profumata accarezzava il volto dei tre viaggiatori, spruzzandoli di goccioline cadute dai rami. Gli alberi tornavano alla vita: larici e betulle mostravano le prime gemme di un pallido verde, i maggiociondoli si coprivano di germogli color oro, sui faggi spuntavano le foglioline e l’aria nel complesso sembrava verdeggiare. Un’ape attraversò il sentiero, ronzando.