Le due sorelle continuarono a camminare avanti e indietro, dall’orlo della collina al corpo di Aslan e viceversa, innumerevoli volte: cercavano di scaldarsi un poco. Si erano fermate a contemplare per un momento il mare e il castello di Cair Paravel, quando la striscia rosa che tingeva l’orizzonte diventò color dell’oro e dove mare e cielo si incontravano apparve il bordo del disco solare.
Fu allora, mentre spuntava il sole, che sentirono dietro di sé un rumore fortissimo, il fragore assordante di un lastrone gigantesco che si spacca.
— Cos’è stato? — chiese Lucy, afferrando intimorita il braccio di Susan.
— Ho… ho… paura a voltarmi — rispose Susan, balbettando. — Dev’essere successo qualcosa di terribile.
— A lui? Gli stanno facendo qualcosa di peggio? — chiese Lucy. — Andiamo a vedere — e si voltò di scatto trascinando con sé anche Susan.
Nella luce del sole nascente tutto sembrava diverso: i colori e le ombre erano mutati a tal punto che in un primo momento non videro la cosa più importante. Poi, sì: la grande Tavola di Pietra si era rotta in due pezzi, lungo una fessura trasversale che andava da parte a parte. E il corpo di Aslan non c’era più.
— Oh, no! — gridarono in coro Susan e Lucy. Corsero verso la grande tavola.
— È terribile — esclamò Lucy, rimettendosi a singhiozzare. — Potevano almeno lasciarci il suo corpo.
— Chi ha fatto una cosa simile? — si chiese Susan, piangendo anche lei. — Cosa significa? C’è un’altra magia?
— Sì — rispose una voce profonda alle loro spalle. — C’è un’altra magia.
Le due bambine si guardarono intorno. Là, splendido nella luce del sole nascente, c’era Aslan. Più grande di come lo avevano visto prima, più nobile, più maestoso. Scuoteva la criniera.
— Aslan! — esclamarono entrambe, fissandolo impaurite e contente al tempo stesso. — Allora non eri morto, caro Aslan? — chiese Lucy.
— Non sono più morto — rispose il leone.
— Non sei… non sei un… — domandò Susan con voce tremante. Non sapeva decidersi a dire la parola "fantasma". Aslan si avvicinò, piegò un poco la testa e le diede una leccatina sulla fronte. Susan sentì il calore del suo fiato e quella specie di profumo che sembrava diffuso intorno a lui.
— Ti sembro un fantasma? — chiese Aslan.
— Oh, no. Sei vivo, sei vivo! — gridò Lucy, e tutt’e due si lanciarono verso di lui, ripresero ad abbracciarlo, accarezzarlo e coprirlo di baci.
— Ma cosa significa? — chiese Susan, quando si furono un po’ calmate.
Aslan rispose: — Significa che la Strega Bianca conosce la Grande Magia, ma ce n’è un’altra più grande che non conosce. Le sue nozioni risalgono all’alba dei tempi: ma se potesse penetrare nelle tenebre profonde e nell’assoluta immobilità che erano prima del tempo, vedrebbe che c’è una magia più grande, un incantesimo diverso. E saprebbe che, quando al posto di un traditore viene immolata una vittima innocente e volontaria, la Tavola di Pietra si spezza e al sorgere del sole la morte stessa torna indietro.
— Oh, è meraviglioso — esclamò Lucy battendo le mani e saltando dalla gioia. — E ora come ti senti, Aslan?
— Sento che mi tornano le forze e, bambine mie, prendetemi se vi riesce!
Così dicendo Aslan le fissava con i grandi occhi lucenti, il corpo percorso da un fremito, e si frustava i fianchi con la lunga coda. Restò così per qualche attimo ancora, poi spiccò un balzo e atterrò dall’altra parte della Tavola di Pietra, oltre le teste di Susan e Lucy. Lucy scoppiò a ridere senza un vero perché e fece l’atto di acchiappare il leone. Aslan saltò di nuovo e la caccia cominciò. Lui correva intorno al grande prato sulla sommità della collina, ora lasciandosi avvicinare al punto che le ragazze quasi potevano toccargli la coda, ora sgusciando via lontano; ripiombava tra loro con una specie di gran tuffo, le ghermiva con le grosse zampe vellutate, le lanciava in aria per riprenderle al volo. Si fermò inaspettatamente e le piccole gli furono addosso, poi tutti e tre rotolarono sull’erbetta in una gran confusione di criniera, capelli, braccia, gambe e zampe. Fu un gioco chiassoso e felice, come si può fare solo nel paese di Narnia, e Lucy non capiva bene se stesse giocando con il grande Aslan dalla voce di tuono o con un affettuoso micione. E la cosa più strana fu che quando si trovarono stesi sul prato, ansanti e allegri tutti e tre, le ragazzine non sentirono più la minima stanchezza, né fame né sete.
— E ora occupiamoci di cose serie — disse infine Aslan. — Tappatevi le orecchie, bambine, perché sento che devo fare un gran ruggito.
Susan e Lucy obbedirono. Il leone spalancò le fauci e assunse un’espressione così terribile che le due ragazze non osarono più guardarlo. Videro invece che gli alberi davanti a lui si piegavano come fuscelli al soffio del vento.
— Dobbiamo fare un lungo viaggio. Meglio che mi montiate in groppa — concluse Aslan.
E si accucciò per permettere alle due ragazzine di salirgli sul dorso coperto di pelliccia calda e dorata. Susan salì per prima e si afferrò alla criniera, Lucy le si mise dietro, cingendola con le braccia intorno alla vita. Aslan si tirò su e con un grande balzo si lanciò per la collina e quindi nel bosco.
Forse la corsa a cavalcioni del leone fu la cosa più bella che capitasse alle sorelle nel regno di Narnia. Siete mai stati in groppa a un cavallo al galoppo? Immaginate qualcosa di simile, ma senza il rumore degli zoccoli che percuotono il terreno, senza il tintinnio delle redini e del morso. Immaginate una gran corsa tranquilla e veloce al tempo stesso, accompagnata dal tonfo leggero di grandi zampe dai polpastrelli di velluto. Invece del colore bruno, grigio o nero del cavallo, immaginate di avere sotto di voi una pelliccia dorata e di vedere la gran criniera che ondeggia al vento. E naturalmente, la corsa sarà almeno due volte più rapida che sul più rapido destriero.
Aslan correva e correva, senza esitare e senza stancarsi.
Andava e andava, passando sicuro fra i tronchi d’albero, penetrava nel cuore della foresta, balzava sui grossi cespugli, oltre le siepi di rovo, guadava i torrenti e nuotando agilmente attraversava i fiumi più profondi. Immaginate di andarvene così, non per le strade di campagna, nei viali del parco o tra le dune della spiaggia, ma nel meraviglioso paese di Narnia, in primavera. Aslan percorreva viali di faggi altissimi, boschi di querce frondose, prati fioriti e filari di ciliegi in boccio, candidi come la neve; passava vicino a cascate ruggenti e a rocce muschiose, sfiorava caverne piene d’echi e di tenebre; su per scoscesi pendii battuti dal vento, giù per discese coperte di ginestre spinose; sul cocuzzolo di colline incappucciate d’erica, sulla vetta di monti altissimi; giù giù a precipizio nelle gole profonde e di nuovo nelle valli che si stendevano per chilometri e chilometri, trapunte di fiori azzurri.
Era già quasi mezzogiorno quando arrivarono sulla cima di una collina molto ripida: davanti a loro, in fondo alla valle, si ergeva un castello che sembrava piccolo come un giocattolo, fatto di sole torri puntute. Il leone correva così veloce che Susan e Lucy si trovarono di fronte al castello prima ancora di avere il tempo di chiedere a chi appartenesse. Adesso non sembrava più un giocattolo, ma un edificio sinistro, coronato di torri minacciose. Sui bastioni merlati non si vedeva anima viva, neppure una sentinella. Il grande cancello appariva ben chiuso, ma non per questo Aslan rallentò l’andatura.
— Il castello della strega — gridò. — Tenetevi ben salde, bambine mie.
Un attimo dopo il mondo sembrò capovolgersi, Lucy e Susan si sentirono il cuore in gola: Aslan si era improvvisamente ritirato in se stesso, poi era scattato in aria per compiere il più gran salto che sia mai stato fatto (ma sarebbe più giusto chiamarlo un volo). Così superarono, d’un balzo, le mura di cinta del castello. Le due sorelline rotolarono dalla groppa di Aslan, sane e salve, nel bel mezzo di un grande cortile pieno di statue.