— Ma io voglio sposarmi. Perché mai dovrei accollarmi il destino, qualunque esso sia, che secondo Rood è mio dovere caricarmi sulle spalle, a rischio d’esserne schiacciato? Io non vado attorno cercando il mio destino come un vitello smarrito.
Un angolo della bocca sottile del Maestro Ohm s’inarcò appena. — Chi era Ilon di Yrye.
Morgon represse un sospiro. — Ilon era un arpista alla corte di Har di Osterland. Un giorno, con una canzone, offese Har così tremendamente che fuori di sé per la paura decise di fuggire. Da solo si recò sulle montagne, senza portarsi dietro nient’altro che la sua arpa, e là visse in pace, lontano da ogni essere umano, coltivando la terra e suonando il suo strumento. In quella desolazione la sua arpa risuonava così melodiosa che essa divenne la sua voce, e le sue note dicevano le cose che egli non poteva dire rivolgendosi agli animali e agli uccelli di quella terra. E da creatura a creatura la notizia di ciò volò lontano, finché un giorno giunse agli orecchi del Lupo di Osterland, il quale era lo stesso Har, che in quella forma si aggirava nella sua terra. La curiosità lo condusse agli estremi confini del regno, e là egli trovò Ilon, che suonava sull’orlo del mondo. E allora Ilon, quando terminò la canzone e risollevò lo sguardo, dinnanzi a sé ritrovò il terrore da cui aveva voluto fuggire.
— E l’interpretazione?
— L’uomo che fugge la morte deve per prima cosa fuggire da se stesso. Ma non vedo cosa questo abbia a che fare con me. Io non sto fuggendo: semplicemente non sono interessato alla cosa.
L’enigmatico sorriso del Maestro si smorzò un poco. — Allora io ti auguro la pace del tuo disinteresse, Morgon di Hed — disse sottovoce.
Morgon non riuscì a rivedere Rood, sebbene fosse uscito sulle terrazze di roccia prospicienti il mare e lo avesse cercato in tutta la collina per metà del pomeriggio. Cenò alla mensa coi Maestri, e quando più tardi uscì nella fresca brezza del tramonto incontrò l’arpista del Supremo che risaliva lungo la strada.
Deth si fermò davanti a lui. — Mi sembri preoccupato.
— Non sono riuscito a trovare Rood. Dev’essere andato giù a Caithnard. — Si passò una mano fra i capelli in uno dei suoi rari gesti di sconforto, poi s’appoggiò con le spalle al tronco di una quercia. Sopra uno dei suoi sopraccigli luccicavano tre stelle, mute nella penombra serotina. — Abbiamo avuto una discussione; neanche adesso sono certo di sapere precisamente su che cosa. Vorrei che venisse con me ad Anuin, ma adesso si sta facendo tardi e ancora non so cosa intenda fare.
— Dovremmo imbarcarci.
— Lo so. La marea non aspetta, e se tardiamo la nave salperà senza di noi. Probabilmente è ubriaco in qualche taverna, senza nient’altro addosso che i suoi stivali. Forse preferirebbe vedermi intraprendere un lungo viaggio verso il Supremo, piuttosto che sposato con Raederle. E può darsi che abbia ragione. Lei non si adatterebbe mai a Hed, ed è questa consapevolezza che lo abbatte. Forse dovrei andar giù anch’io e ubriacarmi con lui, e poi tornarmene a casa. Non lo so. — Notò l’espressione paziente e vagamente perplessa dell’arpista, e sospirò. — Vado a prendere la mia sacca.
— Prima di partire devo parlare un momento al Maestro Ohm. Certo che, fra tutti, sicuramente Rood ti avrebbe detto chiaramente ciò che pensa di questo matrimonio.
Con un colpo di spalla Morgon si scostò dall’albero. — Suppongo che sia così — disse tristemente. — Ma non capisco perché abbia voluto mettermi tutto a un tratto sottosopra a questo modo.
Recuperò la sua sacca dal caos della stanza di Rood, e poi scese a salutare i Maestri. Il cielo si stava già riempiendo di ombre quando lui e l’arpista s’incamminarono sulla lunga strada che scendeva in città, e sulla cima dei due promontori fra cui era chiusa la baia brillavano i fuochi di segnalazione. Le piccole luci delle taverne e delle case disegnavano un firmamento di stelle sulla costa immersa nel buio. La marea saliva con onde che sciabordavano sulle scogliere, e la brezza marina soffiava sempre più forte portando l’odore di salmastro fin sui colli. Quando i due salirono a bordo il vascello dei mercanti ondeggiava vistosamente nelle acque fonde del bacino, e il vento teso faceva svolazzare una piccola vela, lasciata sciolta, come un fantasma sotto la luna. La nave salpò l’ancora. In piedi sulla poppa, Morgon restò a fissare le luci del porto finché palpitarono sulla scura distesa di onde e svanirono.
— Saremo ad Anuin domani pomeriggio, vento permettendo — gli disse un mercante dall’aria affabile, la cui barba rossiccia era tagliata da una cicatrice verticale sulla mandibola. — Potete dormire sul ponte o sottocoperta, come preferite. Piuttosto che coi cavalli che abbiamo impastoiato nella stiva, starete meglio qui al vento. E c’è un bel po’ di pelli delle vostre pecore, con cui potrete tenervi caldo.
— Grazie — rispose Morgon. Sedette su un rotolo di canapi, con un braccio sulla spalletta, e osservò la pallida scia che si incurvava in risposta al lento giro di barra del timoniere. I suoi pensieri scivolarono su Rood. Riprese i capi del loro litigio fin dal suo inizio, cercò di ricostruire la discussione, si confuse, ricominciò daccapo. Il vento gli portava le parole dei marinai intenti alla manovra, mescolandole alle voci dei mercanti che chiacchieravano delle loro merci. L’albero e i pennoni scricchiolavano sotto la spinta della velatura; la nave, appesantita dal carico ma ben bilanciata, tagliava con un beccheggio ritmico e facile le onde lunghe degli alti fondali. Il freddo vento dell’est cominciò a intorpidire le guance di Morgon, che cullato dall’ondeggiare dello scafo e dai cigolii poggiò la testa sulle braccia incrociate e chiuse gli occhi. Stava dormendo quando il vascello si scosse come se i dodici venti l’avessero assalito tutti insieme, e destandosi bruscamente sentì il frenetico cigolio del timone incustodito che girava a vuoto.
Si alzò in piedi, e il grido d’avvertimento che stava gettando gli morì in gola nell’accorgersi che il ponte era deserto. Con le vele gonfie di vento in tempesta la nave s’ingavonò a dritta, scaraventandolo contro la murata. Per restare in equilibrio dovette fare uno sforzo disperato, e imprecò. La cabina di poppa, dove i mercanti avevano acceso lampade per lavorare sui loro libri maestri, era al buio. Il vento ululava sforzando oltre ogni limite di sicurezza la velatura, e quando la nave s’ingavonò di nuovo Morgon fu investito da un’ondata che lo inzuppò da capo a piedi. Si aggrappò all’albero, a denti stretti, così sbigottito da non avvertire neppure i gelidi spruzzi che gli frustavano la faccia.
Da lì a poco vide che il boccaporto si sollevava a fatica, lottando contro la spinta del vento, e nella scarsa luce lunare riconobbe i capelli argentei della testa che ne sbucò. Si mosse in quella direzione, accecato dal salmastro e aggrappandosi a tutto ciò che si trovava fra le mani. Per farsi udire dovette gridare due volte.
— Cosa diavolo stanno combinando, là sotto?
— Nella stiva non c’è nessuno — disse Deth. Morgon lo fissò esterrefatto, incapace di dare un senso a quelle parole.
— Cosa?
Seduto sul bordo del boccaporto, Deth allungò una mano ad afferrargli un braccio. Qualcosa in quella stretta, e nello sguardo cupo che l’uomo girò sul ponte, mozzò il fiato in gola a Morgon.
— Deth…
— Sì. — L’arpista sistemò più saldamente la tracolla del suo strumento musicale.
— Deth, dove sono i mercanti e l’equipaggio? È impossibile che siano… spariti come schiuma al vento. Loro… che fine hanno fatto? Sono caduti fuori bordo?
— Se pure sono scomparsi, prima di farlo hanno pensato bene di lasciarci alle prese con tutta la velatura spiegata.
— Dobbiamo ammainare le vele!
— Credo proprio — disse Deth, — che non ne avremo il tempo. — In quello stesso istante lo scafo sussultò rigidamente dal basso in alto, facendoli cadere all’indietro. Nella stiva i cavalli nitrirono terrorizzati. Il ponte stesso parve inarcarsi sotto di loro, come se si stesse squarciando; una gomena schioccò sopra la testa di Morgon cadendo sul tavolato; il fasciame gemette e ci fu lo schianto delle assi che si spezzavano. La voce di lui suonò stridula per l’emozione: