— Allora non avreste dovuto lasciare la vostra terra, per mettervi a frugare fra gli enigmi a Caithnard. L’uomo saggio conosce il proprio nome. Voi non conoscete il mio nome, non conoscete il vostro. E per me è meglio che moriate così, nell’ignoranza!
— Ma perché? — si stupì lui.
Lei fece un altro passo nella sua direzione. Al suo fianco l’altra ragazza si trasformò improvvisamente in un muscoloso mercante dai capelli rossi, con una cicatrice sulla faccia, che al posto della torcia impugnava una spada di metallo sottile color cenere. Morgon indietreggiò, sentì la parete alle sue spalle. Vide la lama sollevarsi con lentezza da incubo, la sentì sfiorargli la pelle della gola in un contatto bruciante, e s’irrigidì.
— Perché? — La vicinanza della lama rese atone le sue corde vocali. — Almeno ditemi il perché.
— Guardati dagli enigmi senza risposta — Lei gli volse le spalle, annuì al mercante.
Morgon chiuse gli occhi. Disse: — Guardati dal sottovalutare un altro esperto di enigmi! — E fece vibrare la corda più bassa dell’arpa.
La spada che gli stava piombando addosso si frantumò a mezz’aria, ed egli udì un evanescente grido di uccello. Nello stesso istante intorno a lui esplose una tremenda cacofonia di rumori, mentre gli antichi scudi appesi in fila alle pareti esplodevano con vuoti clangori metallici ed i loro frammenti schizzarono ovunque. Morgon si accorse molto vagamente che le sue gambe si piegavano; stordito cadde sul pavimento, e seppellì il gemito di sofferenza nella spessa coperta pelosa che attuti l’impatto della sua testa. Al tintinnare e al rotolare dei pezzi di metallo seguirono alcune voci lontane, vaghe e indistinte.
Qualcuno venne a scuoterlo per una spalla. — Morgon, alzatevi. Potete alzarvi? — Lui sollevò la testa. Rork Umber, vestito quasi soltanto del mantello e armato di pugnale, lo aiutò a rimettersi in piedi.
Hereu, che li fissava dall’alto delle scale con Eriel al suo fianco, esclamò stupefatto: — Che sta succedendo? Sembra quasi che qui dentro ci sia stata una battaglia!
— Mi dispiace — disse Morgon. — Ho distrutto i vostri scudi.
— Voi? E come avete fatto, in nome di Aloil?
— A questo modo. — Sfiorò di nuovo la corda: il pugnale di Rork e le picche delle guardie che erano accorse si sminuzzarono in frammenti. Hereu mandò un ansito di sbigottimento:
— L’arpa di Yrth!
— Sì — annuì Morgon. — Ho pensato che doveva essere quella. — I suoi occhi si spostarono sul volto di Eriel, che accanto a Hereu s’era portata le mani alla bocca. — Poco fa ho creduto… ho sognato che voi foste qui con me.
La testa di lei ebbe un lieve, rigido, cenno di diniego. — No. Io ero con Hereu.
Egli annuì. — Era un sogno, allora.
— Voi perdete sangue — intervenne Rork. Fece girare Morgon verso la luce. — Come vi siete fatto questo taglio sulla gola?
Morgon se lo toccò. Un lungo tremito allora lo scosse, e poi vide, oltre quella di Eriel, la faccia scarna ed esangue di Astrin.
Tornato a letto, sotto l’effetto di un altro sedativo, sognò di vascelli che beccheggiavano in preda a un nero mare selvaggio, coi ponti deserti, le vele ridotte a strisce lacere. Sognò di una bella donna dai capelli neri che cercava di ucciderlo suonando la corda di basso di un’arpa stellata, e che scoppiava in lacrime quando lui la malediva. Sognò di una gara di enigmi senza fine, contro un uomo di cui non aveva mai veduto il volto e che proponeva enigmi su enigmi, pretendendone le risposte e tuttavia senza mai rispondere a sua volta. E su quella scena fosca apparve Snog Nutt, che con la pioggia che gli sgocciolava sul collo sedette pazientemente ad aspettare la fine della gara, ma essa non aveva fine. Ad un tratto però lo strano enigmista si trasformò in Tristan, che gli disse di tornare a casa. Si ritrovò a Hed, su un campo dove lui passeggiava quieto nel tramonto, aspirando l’odore della terra. E proprio mentre stava per aprire la porta di casa sua, si svegliò.
Nella camera dalle belle pareti di pietra azzurra e nera fluiva una grigia luce pomeridiana. Qualcuno che sedeva davanti al caminetto si stava chinando a sistemare meglio un ceppo fra le braci. Morgon riconobbe la magra mano protesa, i lisci capelli d’argento.
Lo chiamò: — Deth.
L’arpista rialzò il capo. Il suo volto era inespressivo, appesantito dalla stanchezza, ma la voce calma come al solito non ne conteneva traccia. — Come ti senti?
— Vivo. — Cambiò posizione e borbottò, dopo aver alquanto esitato: — Deth, ho un problema. Può darsi che me lo sia sognato, ma penso che la moglie di Hereu abbia tentato di uccidermi.
Deth considerò quelle parole in silenzio. Nell’elegante tunica scura a maniche lunghe aveva quasi l’aspetto di un Maestro di Caithnard, con lo sguardo affilato da anni di studio. Si sfregò gli occhi con la punta delle dita e venne a sedersi sul bordo del letto.
— Parlamene.
Morgon gli raccontò ciò che ricordava. La pioggia che a tratti aveva udito anche nei suoi sogni riprese a ticchettare leggermente contro i vetri della larga finestra; quand’ebbe finito di parlare restò ad ascoltarla per qualche istante, poi aggiunse: — Non riesco a immaginare ch’i lei possa essere. Non viene menzionata nelle storie e negli enigmi di nessun regno… proprio come non vengono nominate le stelle. Non posso accusarla; non ho prove, e poi basta che lei mi guardi con quei suoi occhi scuri ed io non so più di cosa sto parlando. Così credo proprio che mi convenga andarmene da qui, quanto prima.
— Morgon, da quando sei sceso nel salone sono trascorsi due giorni, e sei stato male. Presumendo che tu abbia la forza di lasciare questa stanza, cosa vorresti fare?
Morgon ebbe una smorfia. — Me ne andrò a casa. L’uomo saggio non scuote un nido di vespe per scoprire cos’è che ronza all’interno. Ho lasciato Hed senza un sovrano per sei settimane; voglio rivedere Eliard e Tristan. Io sono responsabile verso il Supremo per i doveri legati al nome con cui sono nato a Hed, non per quelli di chissà quale strana identità che pare io abbia fuori di Hed. — Tacque un poco, fissando i vetri su cui la pioggia aveva preso a battere con forza. — Sono curioso — ammise. — Ma questa è una gara di enigmi da cui ho abbastanza buonsenso per stare fuori. Che se la giochi il Supremo.
— Non è il Supremo colui che viene sfidato.
— Il reame è suo; io non sono responsabile dei giochi di potere in Ymris.
— Potresti esserlo, se le stelle sulla tua fronte si mettessero in movimento.
Morgon lo fissò. Le sue labbra si strinsero; si volse dalla parte opposta in cerca di una posizione più comoda, inquieto, cercando di ignorare la sofferenza. Deth gli mise una mano su una spalla. — Riposa. — disse gentilmente. — Se vuoi, quando starai meglio, potrai tornare a Hed, e se il Supremo non mi darà istruzioni diverse io viaggerò con te. Così, se sparirai ancora fra Ymris e Hed, ci penserò io a cercarti.
— Tante grazie. Comunque, non capisco perché il Supremo ti ha lasciato all’oscuro su dove ero finito. Tu gliel’hai domandato?
— Io sono un arpista, non un mago capace di proiettare la mente da qui al Monte Erlenstar. È lui che viene nella mia mente a suo piacere; io non posso contattare la sua.
— Be’, lui deve aver saputo che tu mi stavi cercando. Perché non ti ha detto niente?
— Posso solo fare supposizioni. La mente del Supremo è come una grande rete che comprende le menti di ognuno nel suo reame. Egli va verso i suoi fini, come la spola del tessitore che va avanti e indietro fra i fili, azione dopo azione, per costruire un disegno, ed è per questo che spesso le sue reazioni agli eventi sono imprevedibili. Cinque anni fa Hereu Ymris si sposò, e Astrin Ymris lasciò Caerweddin portando il peso d’un ricordo come una pietra dentro di lui. Forse il Supremo ha usato te per riportare Astrin e il suo ricordo qui, ad affrontare Hereu.