Morgon annuì, sfiorò l’arpa e le docili corde vibrarono dolcemente in una scala che salì e s’interruppe in tono d’attesa, quasi che nella mente di lui risuonasse l’inizio di una ballata epica. — Ti ringrazio. Ma non hai timore di viaggiare con un uomo che ha la morte alle calcagna?
— Non quando quest’uomo ha con sé l’arpa dell’Arpista di Lungold.
Partirono all’alba del mattino successivo, così silenziosamente che soltanto Hereu e il semiaccecato erede di Ymris seppero che se n’erano andati. Cavalcarono a settentrione attraverso Pian Bocca di Re, col sole basso che allungava le loro ombre sulle massicce pietre abbattute delle rovine. Un gabbiano che veleggiava alto nell’aria fredda rivolse loro un grido acuto, simile a una sfida, poi si lasciò portare dal vento nel cielo terso verso sud, sopra la fila di vele azzurre delle navi da guerra che sfruttavano la lenta corrente del Thul per uscire in mare aperto.
CAPITOLO QUINTO
Viaggiarono senza fretta attraverso Ymris, mentre Morgon si rimetteva dalle ultime conseguenze della sua ferita, ed evitarono le grandi dimore dei nobili del regno, fermandosi dopo ogni placida giornata a cavallo nei piccoli paesi che sorgevano in mezzo ai campi coltivati o nelle anse dei fiumi. Era sempre Deth a pagare per il vitto e l’alloggio con la musica della sua arpa. Morgon, sopportando il freddo e trincerato in un angolo in un mogio silenzio, beveva il brodo bollente che le contadine preparavano per lui; ed i suoi occhi indugiavano sui loro uomini affaticati dal lavoro, sui ragazzini spettinati e malmessi, che sedevano senza quasi osare muoversi quando nelle loro case risuonavano gli elaborati e affascinanti arpeggi di Deth e la sua esperta voce di cantore. Si lasciarono proporre con animo lieto qualunque tipo di canzone e di ballata, e chiedevano poi musica per i loro balli semplici. Di tanto in tanto capitava che uno di loro tirasse fuori la sua arpa, per solito uno strumento ereditato di generazione in generazione, e ne illustrasse la storia curiosa o singolare, oppure suonasse una variante locale di una qualche canzone, che invariabilmente Deth riusciva a ripetere dopo averla ascoltata soltanto una volta. E Morgon, gli occhi fissi sul volto senza età inclinato sulla lucidissima arpa di quercia, si sentiva sfiorare dal familiare contatto di una domanda che giaceva nel fondo della sua mente.
Fra le campagne sassose ed i bassi colli sul confine di Marcher, dove la terra improduttiva ospitava pochissimi villaggi e fattorie, essi si videro costretti per la prima volta a pernottare all’aperto. Si fermarono presso un fiumiciattolo, sotto la chioma di tre grandi querce. Gli ultimi raggi del sole che attraversavano il cielo d’un limpido e profondo azzurro illuminavano alti spunzoni di roccia rossastra, e spargevano toni dorati sull’erba delle colline. Morgon, alimentando il fuoco appena acceso, s’interruppe un momento e si guardò attorno. L’aspra piana ondulata saliva verso antichi e consunti colli, che nei loro nudi tondeggianti profili facevano pensare a vecchi giganti addormentati. Con un po’ di meraviglia disse: — Non ho mai visto una terra simile a questa.
Deth tirò fuori dalla bisaccia la loro provvista di cibo: formaggio, vino, frutta e noci che un fattore aveva venduto loro. Gli sorrise. — Aspetta di arrivare a Passo Isig. Questa è una zona accogliente.
— È immensa. Se avessi viaggiato così a lungo e in linea retta attraverso Hed, starei passeggiando sul fondo dell’oceano già da una settimana. — Depose i rami sul fuoco, e osservò le fiamme divorare in rapidi bagliori le foglie secche. La pesantezza del mal di capo e della febbre lo avevano finalmente abbandonato, lasciandolo lucido e curioso, capace di apprezzare il vento freddo e i colori del paesaggio. Deth gli prese la borraccia del vino; ne bevve una sorsata. Le fiamme si innalzarono, ondeggiarono nell’aria come strani e brillanti frammenti di tessuto. Tornando a riflettere sui suoi ricordi Morgon mormorò: — Dovrei scrivere a Raederle.
Era la prima volta che pronunciava il nome di lei da quando avevano lasciato Caithnard. I frammenti della sua memoria si riunirono nell’alone ramato dei capelli di lei, in un’immagine delle sue mani dalle unghie dipinte d’oro, nell’ambra dei suoi occhi. Sentendo lo sguardo dell’arpista su di sé gettò un altro ramo sul fuoco. Sedette con la schiena appoggiata a un albero e afferrò ancora la borraccia del vino.
— E anche a Eliard. I mercanti probabilmente gli diranno abbastanza da fargli venire i capelli grigi per la preoccupazione, prima che una mia lettera lo raggiunga. Se dovessi perdere la vita in questo viaggio, sarebbe un brutto colpo per lui.
— Se aggireremo Herun, non avrai la possibilità di spedire lettere fino al nostro arrivo in Osterland.
— Avrei dovuto pensarci prima. — Passò la borraccia all’arpista e si tagliò una fetta di formaggio. I suoi occhi indugiarono sul fuoco. — Dopo la morte di nostro padre, siamo stati così vicini che qualche volta sognavamo gli stessi sogni… Io ero unito allo stesso modo con mio padre, come suo Erede. L’ho sentito morire. Non sapevo come, né perché, né dove. Semplicemente fui certo, in quel momento preciso, che lui stava morendo, e poi che era morto, e che il governo della nostra terra era passato a me. Per un attimo vidi ogni foglia, ogni seme, ogni radice di Hed… Io ero ogni foglia, ogni seme appena piantato… — Si chinò in avanti, raccolse il pane. — Non so perché te ne sto parlando. Tu devi averlo sentito dire migliaia di volte.
— Il passaggio del governo della terra? No. Da quel poco che ho sentito, tuttavia, il passaggio non è così semplice e tranquillo in altre terre. Mathom di An mi ha nominato alcuni dei vari legami che richiedono la costante attenzione di chi governa la terra di An: il legame dei libri d’incantesimi di Madir, il legame degli antichi nobili ribelli di Hel nelle loro tombe, il legame di Peven nella sua torre.
— Rood me ne ha parlato. Mi chiedo se Mathom abbia lasciato libero Peven, ora che io ho la corona. O piuttosto — aggiunse tristemente, — ora che la corona di Peven è in fondo al mare.
— Ne dubito. I legami di un Re non vengono sciolti alla leggera. E neppure i suoi voti.
Morgon, staccando un pezzo di pane dalla pagnotta, sentì un lieve flusso di sangue imporporargli il viso. Gettò al compagno un’occhiata un po’ timida. — Sì, credo anch’io. Ma non potrei mai chiedere a Raederle di sposarmi, se non avesse altro motivo che il voto di Mathom per accettarmi. La decisione spetta a lei, non a Mathom, e lei potrebbe decidere di non voler vivere a Hed. Ma se c’è una possibilità, allora è bene che io le scriva per dirle che andrò da lei, nel caso… che voglia aspettarmi. — Mandò giù un boccone di pane e formaggio, poi cambiò bruscamente discorso: — Quanto ci metteremo ad arrivare a Monte Erlenstar?
— Se raggiungeremo Passo Isig prima dell’inverno, forse sei settimane. Ma se a Isig nevicasse prima del nostro arrivo, dovremo stare là fino a primavera.
— Non faremmo prima aggirando Herun da occidente, e poi attraversando le terre deserte su fino a Erlenstar, senza valicare il Passo?
— Dalla porta posteriore di Erlenstar? Dovresti essere un lupo per poter sopravvivere nell’entroterra in questa stagione. Io ho percorso quella strada soltanto poche volte in vita mia, e mai in questo periodo così avanzato dell’anno.
Morgon appoggiò la nuca al tronco dell’albero. — Un paio di giorni fa, quando ho ricominciato a usare il cervello — disse, — mi è venuto da pensare che se tu non fossi con me io non avrei la minima idea di quale direzione prendere. Tu ti muovi in questa terra come se l’avessi attraversata mille volte.
— Può essere. Ho perso il conto. — Deth riattizzò il fuoco, e le braci gli si rifletterono negli occhi quieti. Il sole era tramontato; un vento rigido strappava mormorii incomprensibili alle fronde sopra di loro.