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D’un tratto Morgon chiese: — Da quanto tempo sei al servizio del Supremo?

— Quando Tirunedeth morì io lasciai Herun, e il Supremo mi convocò al Monte Erlenstar.

— Seicento anni… cosa facevi prima?

— Suonavo l’arpa, viaggiavo… — Tacque, con gli occhi sul fuoco; poi riluttante aggiunse: — Avevo studiato a Caithnard. Ma non volevo insegnare, così lasciai la scuola prima di prendere il Nero.

Morgon si stava portando la borraccia alla bocca; la riabbassò senza bere. — Non avevo idea che tu fossi un Maestro. Qual era il tuo nome a quel tempo? — Ma ancor prima d’aver terminato la domanda il volto gli s’imporporò, e in fretta disse: — Scusami. Dimentico spesso che parecchie delle cose che m’incuriosiscono non sono però fatti miei.

— Morgon… — S’interruppe. I due mangiarono in silenzio, poi Deth prese la sua arpa e la tolse dalla custodia. Fece scorrere le dita sulle corde tambureggiandole lievemente. — Non hai ancora cercato di suonare il tuo strumento?

Morgon sorrise. — No. Mi fa paura.

— Prova.

Morgon estrasse l’arpa dalla morbida custodia di cuoio che Hereu gli aveva regalato. Lo sfavillante intreccio di fili d’oro, le lune d’avorio candido e il legno liscio lo lasciarono muto un istante con la loro bellezza. Deth pizzicò le corde più alte del suo strumento; Morgon gli fece eco dolcemente con le sue corde, perfette nel loro registro. Deth eseguì una scala completa per consentirgli di controllare la tonalità complessiva, ed egli lo seguì ripetendo esattamente le stesse note. Soltanto due volte il suono vibrò diverso, e ogni volta fu Deth che s’interruppe per accordare la propria arpa.

Vedendo poi Morgon poggiare le dita sulla corda più bassa, disse: — Non ho nessuna corda da intonare con quella.

Morgon fece risalire le dita sulle note più alte. Il cielo era nero su di loro, il vento s’era placato. La luce del fuoco danzava sulle arcate di rami contorti che fornivano loro riparo. Meravigliato osservò: — Come può essere ancora accordata dopo tutti questi anni, e perfino dopo essere stata ripescata dal mare?

— Yrth legò la tonalità a queste corde con la sua stessa voce. Non esiste un arpa più bella in tutto il reame del Supremo.

— E né tu né io possiamo suonarla. — Soffermò lo sguardo sui candidi intarsi dell’arpa di Deth. Non era adorna di gemme o di metalli preziosi, ma la sua struttura in quercia era stata scolpita e intarsiata da una mano d’artista. — Hai costruito tu stesso il tuo strumento?

Deth sorrise, sorpreso. — Sì. — Accarezzò il profilo dell’arpa con inaspettata tenerezza. — La feci quand’ero ancora giovane, modellandola sulle caratteristiche delle mie mani, dopo anni trascorsi a suonarne altre di vario genere. Scolpii un pezzo dopo l’altro, usando quercia di Ymris, seduto accanto al fuoco da campo in terre lontane e solitarie dove l’unica voce che potevo udire era la mia. E in ogni pezzo mi divertii a ricavare la forma di foglie, di fiori, e di uccelli che vedevo nei miei vagabondaggi. Ad An cercai per tre mesi prima di trovare le corde che volevo, e quando vidi quelle adatte vendetti il mio cavallo per poterle comprare. Erano state tolte dall’arpa spezzata di Ustin di Aum, che era morto di crepacuore dopo la conquista di Aum. Al momento del decesso il suo dolore penetrò nel legno dell’arpa, schiantandolo, e permeò anche le corde dando loro un’intonazione funerea. Dovetti lottare con esse nota per nota, nel riaccordarle. E infine con mia soddisfazione riacquistarono la tonalità primitiva.

Morgon fece udire un sospiro e abbassò la testa. Per alcuni lunghi minuti tacque, senza guardare il compagno, mentre Deth ravvivava il fuoco pensosamente e con un ramoscello faceva sollevare nell’aria nugoli di effimere scintille. Infine rialzò lo sguardo.

— Perché Yrth mise sulla sua arpa queste stelle?

— L’ha fatta per te.

Morgon trasalì leggermente. — Nessuno poteva conoscermi. Nessuno!

— Forse — disse Deth con calma. — Ma quando ti vidi a Hed, io ripensai a quest’arpa; e le stelle che vi avevo visto incidere si unirono a quelle sulla tua fronte come un enigma e la sua risposta.

— Allora chi… — La sua voce ebbe un tremito e s’interruppe. Con una smorfia di disagio s’appoggiò all’indietro. — Io non posso ignorare tutto questo, e non posso capirlo, sebbene abbia tentato disperatamente una cosa e l’altra. Io sono un Maestro degli Enigmi. Perché devo essere così spaventosamente ignorante? Perché Yrth non ha mai menzionato le tre stelle nei suoi libri? Chi c’è alle mie spalle, che cerca di trascinarmi alla morte, e da dove veniva quella donna? Se queste stelle provocano una tale reazione in quella gente strana e potente, perché gli stessi maghi erano all’oscuro sia delle stelle che di quel popolo? A Caithnard ho speso un interno inverno con il Maestro Ohm, cercando riferimenti a queste tre stelle nella storia, nelle poesie, nelle leggende e nelle canzoni del reame. Yrth stesso, descrivendo la sua costruzione dell’arpa a Isig, non parlò mai delle stelle. E tuttavia i miei genitori sono morti, Astrin ha perso un occhio, ed io per tre volte ho rischiato d’essere ucciso a causa loro. È una cosa tanto insensata che talvolta ho l’impressione di cercar di decifrare un sogno, se non fosse per il fatto che nessun sogno è così mortale. Deth, ho perfino paura di cominciare a intravedere la verità.

Deth smise di frugare nel fuoco col ramoscello. — Chi era Sol di Isig, e perché morì?

Morgon distolse lo sguardo. — Sol era il figlio di Danan Isig. Fu inseguito attraverso le miniere delle Montagne di Isig, un giorno, da dei mercanti che volevano derubarlo di una gemma senza prezzo. Giunse così dinnanzi alla porta di pietra nel meridione del regno, al di là della quale giaceva un orrore più antico di Isig stesso. Ma egli non poté decidersi ad aprire quella porta, che nessuno mai aveva aperta, per paura di quel che poteva esserci nelle tenebre dietro di essa. Così i suoi inseguitori lo trovarono lì, preda della sua indecisione, e lo uccisero.

— E l’interpretazione?

— Fai un passo avanti nell’ignoto, piuttosto che un passo indietro verso la morte. — Lasciò vagare gli occhi nelle tenebre, poi imbracciò l’arpa e le sue dita si mossero sulle corde, estraendone il ritornello di una ballata popolaresca di Hed.

Dopo qualche nota Deth osservò: — È la Canzone di Hover e Bird… conosci le parole?

— Tutte e diciotto le strofe. Ma non posso suonare davvero questa…

— Aspetta. — Deth impugnò la propria arpa. — Non devi aver paura di un oggetto. Se gli apri la mente e le mani e il cuore, imparerete a conoscervi a vicenda.

L’uomo insegnò a Morgon gli accordi e i cambiamenti di chiave dell’arpa stellata, e seduti accanto al fuoco suonarono insieme fino a notte tarda, mandando refoli di note nelle tenebre come stormi di uccelli.

Trascorsero in Ymris un’altra notte ancora, poi valicarono le colline scoscese e deviarono a oriente, per aggirare la bassa catena di montagne oltre la quale si stendevano le piane e i colli di Herun. Le piogge d’autunno ripresero a cadere, insistenti e monotone, ed essi cavalcarono in silenzio lungo quell’inospitale territorio di confine, intabarrati nei larghi mantelli col cappuccio, sotto i quali tenevano al riparo le custodie in cuoio delle arpe. Si fermarono a dormire nelle grotte che trovarono asciutte, o sotto le spesse chiome degli alberi, lottando col vento e con la legna umida per accendere il fuoco, imprecando contro la pioggia. Nei luoghi dove trovarono un riparo migliore Deth, per tenersi in esercizio, suonò canzoni che Morgon non aveva mai sentito, di Isig e di Herun, di Osterland e della corte del Supremo. Ciò malgrado lui s’impegnò a seguire l’arpa di Deth con la sua, talvolta sbagliando il tempo, talaltra facendo stecche, per poi d’improvviso appaiarsi perfettamente a lui nel controcanto o raddoppiandone la melodia, quasi a sfidarlo; e in quei momenti le voci delle due arpe s’incontravano in un coro dolce e intonato, finché lui s’imbrogliava su un passaggio difficile e abbassava lo strumento, frustrato, rivolgendo un sorrisetto melenso al volto divertito del compagno. E in qualche modo la musica delle loro arpe raggiunse gli orecchi della Morgol, nella sua lontana corte di Herun.