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E disseccandosi vanno i tuoi pensieri come gialle le vigne avvizziranno e sabbia diverrà l’erba sotto al piede. Ecco, ogni vita da te è risucchiata per marcir come grano non raccolto…

Morgon spalancò gli occhi. L’oscurità e le rosse braci agonizzanti rotearono intorno a lui, finché il buio s’infranse come un’onda sul suo volto ed il focolare sembrò svanire in distanza. In quel pozzo di tenebra vide l’isola di Hed trascinata come il relitto di una nave sul mare furioso, sentì le foglie delle vigne accartocciarsi crocchiando, mentre nelle sue vene i fiumi rallentavano, si facevano esili, e i loro letti divenivano fango secco al suono orribile di quell’arpa. Emise un gemito rauco, incredulo, e finalmente oltre il caminetto vide l’arpista, il cui strumento era fatto di strane ossa e conchiglie lisce, il cui volto era una chiazza pallida nell’ombra. La misteriosa faccia parve alzarsi un poco, al grido di Morgon, ed egli scorse un lampo d’oro in quegli occhi sconosciuti.

Secca, polvere secca è la tua terra, del deserto tu sei governatore, Principe dei morenti. Lutto nei campi tuoi. Appassisce il tuo corpo, e orrido geme sul tuo mondo perduto solo il vento che ulula su ogni landa arida e morta nella desolazione sterile di Hed.

Un’ondata sembrò risucchiarlo via dall’oscura costa di cenere, trascinando con lui anche l’ultimo flusso d’acqua dei fiumi, strappando il liquido vitale dalla terra di Hed, lasciando le sue rive spoglie, trasformando l’isola in una desolazione di sabbia arida e sale nerastro oltre i confini del mondo. Morgon sentì la terra fredda e secca, sentì la vita stessa di Hed agonizzare in quel mare morto, agonizzare dentro di lui, e mandò un ansito. Con le ultime energie cercò di gridare una protesta, ed essa non fu una parola, ma un gracidio da uccello che stridette contro l’oscena impossibilità di quella canzone. Il grido lo riportò dentro il suo stesso corpo, quasi che le sue membra ormai sul punto di sgretolarsi nelle tenebre si fossero rimesse insieme.

Si alzò in piedi, tremando, così stordito che inciampò nell’orlo della sua lunga tunica e cadde contro il caminetto. Le sue dita sprofondarono nella cenere, e prima di rialzarsi afferrò follemente rami carbonizzati e braci roventi, scagliandoli verso il volto dell’arpista. Lui girò la testa per evitare d’esser colpito agli occhi, e si alzò di scatto. Nelle sue pupille vibravano scintille dorate. Rise, una sua mano biancheggiò nel buio e colpì Morgon alla fronte. Debole, istupidito dal pugno, Morgon restò in ginocchio ai piedi dell’arpista. Le sue dita artigliarono ciecamente le corde dell’arpa creando una cacofonia di suoni. Un attimo dopo lo strumento roteò nell’aria, sfiorò la testa di Morgon mentre lui si spostava e gli impattò sulla spalla con tale violenza da farlo piegare al suolo.

Il dolore che gli saettò dietro il collo lo fece gridare ancora. Malgrado ciò, e con la vista annebbiata dalle lacrime e dalla sofferenza, riuscì in quel momento a vedere Lyra nel corridoio: la ragazza era in piedi e gli dava le spalle, come se non udisse il più piccolo rumore e se lui stesso fosse più silenzioso di un sogno. Senza alzarsi in piedi si proiettò contro le gambe dell’arpista, riuscì a colpirlo con la spalla sana e lo sbilanciò, mandandolo a cadere su uno dei grandi cuscini. Di nuovo si trovò le dita aggrovigliate nelle corde dell’arpa, che risuonarono; sollevò lo strumento, lo fece roteare e lo scaraventò verso la testa dello sconosciuto. Ci fu un tonfo sordo, un vibrante disarmonico di note, e dal buio provenne un rantolo di rabbia e di dolore.

Morgon si lanciò a braccia protese addosso all’arpista, che si contorse e rotolò al suolo con lui, lottando e divincolandosi. Nella scarsa luce che entrava dal corridoio vide del sangue su quella faccia sconosciuta. Poi un coltello sembrò materializzarsi nell’aria e lampeggiò abbassandosi su di lui. Morgon afferrò disperatamente il polso dell’arpista; l’altra mano dell’uomo gli artigliò in una morsa la spalla ferita, causandogli una fitta di sofferenza accecante.

Gridò, scosso da tremiti convulsi, ma con una testata nel petto riuscì a schiacciare l’avversario a terra. Gli si buttò sopra con tutto il corpo per immobilizzarlo e lo sentì divincolarsi sotto il suo peso, poi gli attanagliò le mani alla gola. Strinse i denti, mentre le sue dita si sforzavano di mantenere la presa, e soltanto allora si rese conto che non lottava più con un uomo, ma contro qualcosa che per liberarsi dalla sua stretta mutava fattezze e dimensioni sotto di lui.

In seguito non seppe mai ricordare quante volte ciò che si agitava fra le sue mani cambiò forma disperatamente per sfuggirgli. Sentì l’odore selvatico e muschioso di una pelliccia d’animale; poi s’accorse che fra le sue dita c’erano penne e piume; poi qualcosa che puzzava di palude ed era viscido come fango. D’un tratto si trovò fra le gambe la groppa di un cavallo che scalpitava furiosamente, e subito dopo un enorme pesce guizzante dalle scaglie oleose che per poco non gli slittò via dalle braccia. Un gatto selvatico soffiò, col pelo ritto e gli artigli sfoderati. Si trovò a dover mantenere la presa su animali così antichi che non avevano nome, e li riconobbe soltanto per averli visti raffigurati su vecchissimi libri. Sbalordito sentì la cosa sotto di lui diventare di roccia, una grossa pietra delle città dei Signori della Terra, su cui quasi si spezzò le unghie; ebbe fra le mani una enorme farfalla, così bella che fu sul punto di lasciarla andare piuttosto che rischiare di spezzarle le ali. La farfalla divenne una rigida corda d’arpa, e da essa scaturì una vibrazione che gli penetrò negli orecchi e nel cranio così a fondo da dargli l’impressione d’essere lui stesso una creatura fatta di suono. E d’un tratto ciò che teneva in mano si mutò in una spada.

Le sue dita ne stringevano la lama, bianco-argento, lunga circa metà del suo corpo; strani intrecci di disegni la ornavano, delicatamente incisi, e in essi si rifletteva il rosso delle braci. L’impugnatura era di rame e d’oro. E sempre in oro, pulsanti di luce, sull’elsa erano intarsiate tre stelle.

La sua stretta s’indebolì. Nella sua gola secca il respiro si fermò, finché nella stanza rimase un silenzio assoluto. Poi, con un grido di rabbia, scaraventò la spada lontano da sé e fuori dalla porta. L’arma andò ad arrestarsi quasi fra i piedi di Lyra, che sobbalzò sbigottita.

La ragazza si chinò a raccoglierla e la soppesò, ma essa prese vita fra le sue mani: all’istante la lasciò ricadere, indietreggiando di corsa fino all’estremità opposta del corridoio. Mandò un grido, e da lontano le risposero alcune voci allarmate. La spada svanì in uno sbuffo di nebbia, e al suo posto comparve il maestro delle forme.

L’individuo si mosse rapidamente verso Morgon; la lancia di Lyra, scagliata una frazione di secondo troppo tardi, gli sorvolò una spalla e volò in camera da letto, piantandosi in uno dei cuscini. Morgon non ne fu colpito per miracolo; rialzò gli occhi e vide la figura dell’avversario avvicinarsi nella penombra. I suoi capelli oscillavano neri e lunghi, aveva un volto irregolare bianco come la madreperla, occhi verde-blu dalle palpebre pesanti che sembravano brillare di luce propria, ed il suo corpo era adesso stranamente fluido e mutevole, del colore della spuma e dell’acqua marina. Si muoveva in silenzio, avvolto in un indumento che sembrava fatto d’alghe, d’erbe tolte da un fondale oceanico e di conchiglie. Mentre avanzava nella camera, inesorabile come un’onda di marea, Morgon sentì la presenza di un potere enorme, indefinibile, inquieto e profondo come il mare, misteriosamente impersonale come la luce in quei due occhi fissi su di lui.

Il grido d’avvertimento di Lyra lo riscosse come da un sogno: — La lancia! Morgon, la lancia accanto a te. Colpiscilo!