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Allungò una mano a impugnare l’arma.

In quegli occhi di mare e di luce ci fu un bagliore, il lontano e sardonico accenno di un sorriso. Morgon si alzò e indietreggiò lentamente con la lancia fra le mani, protendendola fra loro. Sentì il grido disperato di Lyra: — Morgon! — Un tremito violento gli indebolì le dita, la punta dell’arma si abbassò, il sorriso in quegli occhi strani assunse una luce di disprezzo. Con una delle più inconsuete imprecazioni di Ymris, che dalla sua bocca parve un gemito, Morgon sollevò il braccio all’indietro e scagliò la lancia.

CAPITOLO SETTIMO

— Torno a casa mia — disse Morgon.

— Io non ti capisco — sospirò Lyra. Sedeva al suo fianco davanti al fuoco, con un leggero mantello cremisi gettato sulle spalle della sua tunichetta da guardia, e il suo volto era teso per la mancanza di sonno. Con una mano sfiorava la lancia, poggiata accanto a lei. Altre due ragazze della Guardia, appostate nel corridoio, ne sorvegliavano ciascuna delle estremità, e nella debole luce del mattino le punte delle loro lance scintillavano come triangoli d’argento. — Ti avrebbe ucciso, se non fossi stato tu a uccidere lui. Mi sembra chiaro. A Hed ci sono forse leggi che ti proibiscono di ammazzare per autodifesa?

— No.

— E allora perché? — gemette quasi lei. Morgon evitò il suo sguardo, continuando a fissare le fiamme. Aveva le spalle curve, il volto teso, imperscrutabile come un libro chiuso da una serratura a voce. — Sei arrabbiato perché qui, in casa della Morgol, non abbiamo saputo darti protezione? Morgon, a causa di quanto è accaduto poco fa ho chiesto alla Morgol di sostituirmi nel servizio di guardia, ma lei ha rifiutato.

Finalmente sentì su di sé l’attenzione di lui. — Non c’era alcun motivo che tu chiedessi questo.

La ragazza sollevò la testa. — Il motivo c’era. Non solo me ne sono stata lì senza far niente mentre tu lottavi per la tua vita, ma quando mi sono decisa a scagliare la lancia contro il cambiaforma ho sbagliato. E io non avevo sbagliato mai.

— Lui aveva creato un’illusione di silenzio. Non è stata colpa tua se non hai sentito niente.

— Ho fallito nel sorvegliarti. Questo è evidente.

— Niente è evidente.

Morgon si appoggiò all’indietro sui cuscini e si agitò un poco, di nuovo accigliato. Vedendolo trincerarsi nel silenzio lei attese; poi domandò, incerta: — Ebbene, allora è con Deth che sei arrabbiato, perché era con la Morgol quando tu sei stato aggredito?

— Deth? — La fissò con occhi vacui. — No di certo.

— Allora perché sei così adirato?

Lui abbassò gli occhi sul calice di vino che la ragazza gli aveva servito, lo sfiorò. Quando infine si decise a parlare la voce gli uscì lenta e controvoglia, colma di disagio. — Tu hai visto la spada.

Lei annuì. — Sì. — La ruga di perplessità fra le sue sopracciglia si approfondì. — Morgon, io sto cercando di capire.

— Non ti sarà facile. Da qualche parte nel reame c’è una spada stellata, in attesa che il Portatore di Stelle la reclami per sé. E io mi rifiuto di reclamarla. Tornerò a casa, alla terra cui appartengo.

— Ma Morgon, è soltanto una spada. Non sarai mai obbligato a usarla, se non vorrai. D’altra parte, forse potresti averne bisogno.

— Ne avrò bisogno. — Le sue dita s’irrigidirono intorno al calice argentato. — Questo sarà inevitabile. Il cambiaforma lo sapeva. Lui sapeva. Stava ridendo di me quando l’ho ucciso. Lui sapeva esattamente ciò che stavo pensando, mentre nessuno eccetto il Supremo avrebbe potuto saperlo.

— Che cosa stavi pensando?

— Pensavo a come possa un uomo accettare il nome che le stelle su quella spada gli danno, e tuttavia mantenere il governo della terra a Hed.

Lyra tacque. La luce che filtrava dalle nuvole impallidì, lasciando la stanza immersa in un tetro grigiore; le foglie agitate dal vento ticchettavano come dita sul vetro della finestra. Infine la ragazza si abbracciò strettamente le ginocchia ripiegate, e disse: — Non puoi volgere le spalle a tutto questo e tornartene a casa.

— Io posso.

— Ma tu… tu sei un maestro degli enigmi, dopotutto… non puoi rinunciare così a rispondere a un enigma.

Lui la fissò. — Posso fare tutto ciò che dovrò fare, per mantenere il nome con cui sono nato.

— Se torni a Hed, loro verranno là ad ammazzarti. Non hai neppure guardie a Hed.

— Se non altro, morirò nella mia terra. Sarò sepolto nei miei campi.

— È tanto importante questo? Perché affrontare la morte a Hed ti sembra diverso che affrontarla a Herun?

— Perché non è della morte che ho paura… vorrebbe dire perdere tutto ciò che amo per un nome e una spada e un destino che non ho scelto io, e che non accetto. Preferirei morire che perdere il diritto al governo della terra.

Il tono di lei si fece ansioso. — E che ne sarà di noi? Che ne sarà di Eliard?

— Eliard?

— Se loro ti uccidono a Hed, forse resteranno sull’isola. Forse non sarai il solo a morire. E noi, qui, seppure vivi, non faremo che rivolgerci domande a cui tu solo potresti rispondere.

— Il Supremo vi proteggerà. — Ebbe una smorfia acre. — Questo è compito suo. Io non posso farlo. Non ho intenzione di seguire la sorte, qualunque essa sia, che qualcuno ha sognato per me migliaia di anni fa, come una pecora che va a farsi tosare. — Bevve un sorso di vino, scrutando il volto incerto e angosciato di lei. Il suo tono si addolcì. — Tu sei l’Erede di Herun. Un giorno il governo della terra passerà su di te, e i tuoi occhi diverranno d’oro come quelli della Morgol. Questa è la tua patria; saresti disposta a morire per difenderla; il tuo posto è qui. Quale prezzo, quale offerta potrebbe indurti ad abbandonare Herun, volgendo per sempre le spalle a tutto ciò?

Lei rifletté su quelle parole. Fece un gesto vago. — E dove altro potrei andare? Io non appartengo a nessun altro posto. Ma per te è diverso. — Prima che lui protestasse, aggiunse: — Tu hai un altro nome e un altro posto. Tu sei il Portatore di Stelle.

— Preferirei essere un guardiano dei porci a Hed — sbottò lui. Lasciò ricadere stancamente la testa sul guanciale, massaggiandosi la spalla con una mano. All’esterno cominciò a cadere una pioggerellina sottile che subito s’infittì, facendo frusciare le piante nel giardino della Morgol. Chiuse gli occhi e gli parve di sentire l’odore delle piogge autunnali sui campi di Hed. Nel caminetto c’era lo scoppiettio della legna fresca, sfrigolante, familiare. Le fiamme avevano voci sottili che nei suoi orecchi si sommavano, richiamando altre voci: risentì quelle di Tristan e di Eliard che presso il focolare, ad Akren, discutevano pacatamente o scherzavano mentre Snog Nutt, una manciata di ossa e di ragnatele, seduto su una panca, russava facendo da contrappunto alla pioggia. Quasi gli sembrò di udire i discorsi che s’intrecciavano allo scoppiettar del fuoco, finché le voci cominciarono a svanire, si fecero vaghe e scomparvero lontano, e riaprendo gli occhi egli vide i vetri rigati dalla fredda e grigia pioggia di Herun.

Deth era seduto al lato opposto della camera e stava parlando sottovoce con la Morgol, mentre sostituiva alcune corde spezzate della sua arpa. Nel vederlo alzarsi a sedere i due si volsero. El s’era sciolta i lunghi capelli neri e appariva stanca. — Ho mandato Lyra a letto — disse. — Ho messo guardie a ogni porta e fessura della casa, ma è difficile sospettare della nebbia che scivola sul terreno o di un ragno che passa sotto una porta. Come vi sentite?

— Benissimo. — Lo sguardo gli cadde sull’arpa di Deth. Emise un fischio fra i denti. — Ora ricordo. Ho sentito delle corde che si spezzavano, quando ho colpito il cambiaforma. Dunque quell’arpa era la tua.

— Soltanto cinque corde — disse Deth. — Un piccolo prezzo pagato a Corrig per la tua vita. El mi ha dato delle corde provenienti dall’arpa di Tirunedeth per rimpiazzarle. — Depose al suolo lo strumento.