Spezzò un ramo e lo gettò nel fuoco; e i suoi pensieri si volsero al Supremo, la cui dimora era nel cuore di una lontana montagna del settentrione. Il Supremo, fin dall’inizio, aveva lasciato gli uomini liberi di trovar da soli il loro destino. La sua unica legge era la legge della terra, la legge che passava come l’alito della vita da Erede della terra a Erede della terra; se il Supremo fosse morto, o se avesse rinunciato ad esercitare il suo potere così immenso e intricato, ciò avrebbe trasformato il reame in una desolazione. Le manifestazioni della sua potenza erano sottili e inattese; la gente pensava a lui con timore e insieme con ingenua fede; i suoi rapporti coi governanti, mantenuti in genere tramite il suo arpista, erano invariabilmente cortesi. La sua sola preoccupazione era la terra; la sua sola legge era quella istillata più profondamente dei pensieri, più profondamente dei sogni, nei suoi governatori della terra. Morgon ripensò all’agghiacciante storia di Awn di An che, nel tentativo di scoraggiare l’invasione di un esercito di Hel, aveva fatto terra bruciata davanti ad esso, mettendo a fuoco oltre metà del suo regno, bruciando i raccolti, i frutteti, trasformando in distese di cenere le colline e le foreste. Scongiurato infine il pericolo egli s’era destato, il mattino successivo, solo per scoprire d’aver irrimediabilmente perduto tutte quelle cose fatte di pensiero e di dolce consapevolezza, le cose che aveva visto con l’occhio della mente e sentito nel cuore dal momento della morte di suo padre. E il suo Erede, precipitandosi affannato nella camera, s’era fermato di colpo dinnanzi a lui, sbalordito nel trovarlo ancora in vita…
Le fiamme si abbassavano, come animaletti che stanchi di guizzare s’accovacciassero in cerca di riposo. Morgon le nutrì con qualche manciata di stecchi e ghiande secche. Awn si era suicidato. Il mago Talies, metodico e dalla lingua tagliente, che in seguito mise per iscritto quella storia, parlò dell’accaduto a un mercante di passaggio e nel tempo di tre mesi, pur precarie com’erano le comunicazioni in quei giorni turbolenti, ogni discordia armata nel reame del Supremo era cessata. La pace non era durata a lungo, le guerre fratricide o per questioni di confine non erano certo finite, ma s’erano fatte più rare e meno restrittive. Poi i porti e le città principali avevano cominciato a crescere: Anuin, Caithnard, Caerweddin, Kraal, Kyrth…
E adesso uno strano e oscuro potere, mai sospettato in ogni contrada, forse sconosciuto allo stesso Supremo, si stava facendo forte sulle coste orientali. Fin dal tempo in cui esistevano ancora i maghi non c’era mai stata gente dai poteri così misteriosi; i maghi stessi, benché potenti e irrequieti e individualisti, non s’erano mai sognati di cercare d’uccidere un sovrano. E se non fossero scomparsi, se negli ultimi secoli ci fosse stato un indizio della loro esistenza nelle storie e nelle dicerie dei vari regni, certo avrebbero cercato d’incontrare il Portatore di Stelle a Caithnard. Una faccia fluttuò nel fuoco davanti agli occhi di Morgon: occhi di spuma bianchi e imperscrutabili, luminosi come braci, occhi di madreperla… occhi che sorridevano, consci di quel che lui stava pensando, e che sapevano…
Fu costretto a tornare al nocciolo della questione; le sue labbra si aprirono a sussurrare quella domanda: — Perché?
Dal fiume giungeva una fredda brezza notturna che faceva vacillare le fiamme. D’un tratto fu colpito dal pensiero di quanto fosse piccolo quel fuoco, opposto all’enorme tenebra circostante. In un impeto d’apprensione si guardò attorno, rabbrividendo, e tese gli orecchi per identificare oltre il fruscio dell’acqua lo scricchiolio d’un ramoscello calpestato, lo stormire di fronde al passaggio di un corpo. Ma il gorgogliare della corrente assorbiva ogni altro rumore notturno, e il vento trovava troppo fogliame da far stormire. Morgon si distese all’indietro. Il fuoco continuò a nutrirsi di sé stesso; le stelle appese ai rami spogli della quercia sopra di lui sembravano tremolare e scuotersi ai venti delle grandi altezze. Caddero poche isolate gocce di pioggia, pesanti come ghiande. E come se il vento gli portasse un’eco tranquilla dalla distesa oscura che lo circondava, la sua paura sfumò. Si girò su un fianco e cadde in un sonno senza sogni.
Il giorno successivo, seguendo la riva del Cwill, giunse fino al mare. Hlurle, poco più che un molo con annessi magazzini, locande e piccole case malridotte, era annebbiata da una fitta e sottilissima pioggia che veniva dal mare. Fra i battelli da pesca erano ormeggiate due navi, dalle vele azzurre ammainate. Nella zona non si vedeva anima viva. Morgon mise il cavallo al passo sulla strada fangosa che girava verso il molo, rabbrividendo sotto l’acquazzone. Era già buio, e i soli rumori della cittadina erano il tintinnio di qualche catena d’ancora, il cigolare del sartiame e l’occasionale tonfo di un battello contro la banchina. Davanti a lui la luce di una taverna filtrava sul terreno bagnato. Smontò davanti alla porta e lasciò il cavallo al riparo della grondaia sporgente, con una coperta sulla groppa.
All’interno i banchi di mescita ed i rozzi tavoli, illuminati da torce fumose e da un enorme focolare, erano pieni di marinai, mercanti incappucciati e dalle dita fitte di anelli, ingrugniti pescatori giunti lì sotto la pioggia e fra il fango. Morgon ignorò gli occhi che al suo ingresso s’erano girati a scrutarlo blandamente, si slacciò il mantello con dita irrigidite dal freddo e lo appese ad asciugare. Sedette al tavolo di fronte al caminetto, e quasi subito il gestore apparve al suo fianco.
— Signore! — lo salutò l’uomo, in attesa dell’ordinazione. Poi gettò un’occhiata al suo mantello. — Siete lontano dalla vostra casa.
Morgon annuì stancamente. — Birra — disse. — E… cos’è questo profumo?
— Uno stufato denso e davvero ottimo, con agnello tenerissimo e funghi di prima scelta. E c’è il vino… ve ne servirò una coppa.
Mangiò e bevve in silenzio, ogni tanto sospirando sfinito, cullato dal calore e dalle chiacchiere degli avventori che gli giungevano vaghe come la voce del mare. Poi sedette più eretto e bevve la birra, che dal sapore riconobbe come quella esportata da Hed, storcendo il naso all’odore dei panni di lana messi ad asciugare al fuoco. Un mercante che portava un elegante berretto di pelo inzuppato di pioggia sedette al suo fianco. Morgon si sentì addosso i suoi occhi attenti.
Dopo un momento l’uomo si rialzò, si tolse il berretto e il mantello con un copioso sgocciolio d’acqua che investì la panca, e in tono contrito disse: — Scusatemi, Signore. Siete già abbastanza bagnato senza il mio aiuto.
L’uomo indossava un elegantissimo abito di pelle nera e velluto, aveva un volto rude e benevolo, occhi e capelli neri come l’ala di un corvo. Già semiaddormentato per la stanchezza e il calore, Morgon cercò di schiarirsi la mente e di badare al concreto: non c’era nessun modo di sapere se stava parlando a un uomo o all’illusione di un uomo. Comunque accettò il rischio e disse: — Dite, sapete per dove faranno rotta quelle due navi?