CAPITOLO OTTAVO
Due settimane dopo la sua partenza da Hlurle la neve invernale cominciò a cadere. L’aveva prevista, ne aveva annusato l’odore nell’aria, aveva sentito il suo arrivo nella voce del vento selvaggio e incessante. S’era diretto lungo la costa fino alla foce dell’Ose, il grande fiume le cui sorgenti erano nel cuore del Monte Erlenstar. Scorrendo attraverso Passo Isig il fiume aggirava le pendici delle montagne, e nel suo percorso diretto al mare formava il confine meridionale di Osterland. Morgon ne risalì il corso verso occidente, passando su terre mai reclamate da nessuno, foreste dimenticate che solo i mercanti scesi via fiume da Isig avevano visto, aspri colli sassosi dove s’arrampicavano branchi di daini, di alci e di capre di montagna nel loro spesso vello invernale. Una volta gli parve d’aver visto muoversi oltre un bosco lontano un branco di vesta, con le loro leggendarie corna punteggiate d’oro, luccicanti fra gli alberi. Ma sullo sfondo del cielo vuoto e bianco avrebbe potuto trattarsi di semplici refoli di nebbia, e non ne fu certo.
Attraverso quella terra selvaggia si spostò il più rapidamente possibile, sentendosi incalzato dalla neve, cacciando ogni tanto, chiedendosi in un angolo della mente se una tale desolazione avesse mai fine, se c’erano rimasti degli esseri umani nel reame del Supremo, o se il fiume che stava costeggiando non fosse affatto l’Ose ma un altro, mai cartografato, che nasceva a ovest nell’immenso e disabitato entroterra del reame. Quel sospetto lo tenne sveglio più di una volta la notte, quando si domandava cosa stesse facendo lì nel mezzo del nulla, dove una frattura ossea o un animale spaventato, o un’improvvisa bufera di neve, avrebbero potuto ucciderlo facilmente come i suoi nemici. I continui timori scorrevano come una corrente nel suo subconscio. Una torpida pace scendeva tuttavia in lui la notte, quando non c’era nessun colore oltre quello del fuoco e del cielo nero, e nessun suono oltre quello della sua arpa. In quei momenti apparteneva alla notte, era un essere senza nome e senza corpo, come se potesse mettere radici e diventare un albero, alla deriva in un mondo di sensazioni notturne e silvestri.
Finalmente cominciò a scorgere in distanza delle fattorie, greggi di pecore, bestiame che s’abbeverava al fiume, e seppe che da qualche parte aveva oltrepassato il confine di Osterland. Ma in parte per cautela, in parte per l’abitudine al silenzio che nelle ultime settimane era cresciuta in lui, preferì evitare i casolari e i paesetti lungo il fiume. Si fermò soltanto una volta ad acquistare pane, formaggio e vino, e per farsi indicare la strada per Yrye. Gli sguardi curiosi lo mettevano a disagio; si rendeva conto di quanto doveva apparire insolito, né mercante né cacciatore, proveniente dalle terre incolte, vestito con un elegante quanto sporco abito di Herun, e capelli e barba da eremita.
Yrye, la città dove dimorava il Lupo-Re, si trovava a nord, nell’abbraccio delle gelide propaggini di Monte Fosco, il massiccio centrale di una bassa catena montagnosa; da uno dei villaggi una strada conduceva in quella direzione. Morgon aggirò la cittadina e si accampò per la notte in un bosco poco più oltre. Il vento ululava come un lupo fra i castagni e le betulle; fu costretto a star sveglio fino all’alba dal gelo che gli penetrava nelle ossa, accanto a un fuoco che agonizzava come un uccello ferito fra i rami umidi. Le raffiche di vento continuarono a scuotere sia lui che il cavallo per tutto il giorno successivo, ringhiando e frusciando con voce ostile. Solo a sera si placarono; il cielo era un cappa di nuvole fittissime, oltre la quale il sole aveva vagato inosservato ed inosservato tramontava. Quella notte la neve cominciò a cadere, e al mattino si svegliò sotto una spessa coperta bianca.
Il vento freddo s’era però placato del tutto, e la neve scendeva in lievi fiocchi cotonati. Morgon cavalcò dall’alba al tramonto in un silenzio di sogno, rotto soltanto dal frullio delle ali di un merlo, dalla fuga di una lepre nella sua tana, dal mormorio d’un torrente. Quella sera, quando si fermò, mise insieme una tenda usando le pelli conciate di cui era fatto il suo giaciglio, e s’aggirò in cerca di sterpaglia asciutta con cui innescare il fuoco. I suoi pensieri indugiarono, mentre mangiava, su quello strano e antico Re che nel suo repertorio di enigmi ne aveva uno anch’esso sconosciuto ai Maestri di Caithnard. Har, il Lupo-Re, era nato ancor prima dei maghi stessi; regnava in Osterland fin dall’Anno dell’Insediamento. Gli aneddoti che lo riguardavano erano numerosi e spesso spaventosi. Era dotato della facoltà di mutare forma. Il suo tutore era stato il mago Suth, durante gli anni in cui Suth conduceva una vita selvaggia. Sulle sue mani vi erano cicatrici identiche alle corna dei vesta, e s’intendeva di enigmi quanto un Maestro. Morgon sedette con la schiena poggiata a un tronco e sorseggiò lentamente il vino dalla borraccia, chiedendosi dove quel Re poteva aver appreso tali nozioni. In lui tornavano a balenare interessi e curiosità che la solitudine aveva sopito, e provava la nostalgia dei luoghi frequenti e civili. Finì il vino, si volse per cercarne dell’altro, e in quel momento vide oltre il chiarore del bivacco due occhi che lo fissavano.
Si sentì raggelare. L’arco era dall’altra parte del fuoco; il coltello era conficcato verticalmente nel grosso pezzo del formaggio. Lentamente allungò una mano verso di esso. Gli occhi lampeggiarono. Ci fu un movimento, uno stormire di fronde; poi un vesta avanzò nella luce rosata della fiamma.
Morgon deglutì un groppo di saliva, pesante come una pietra. L’animale era poderoso, grosso quanto un cavallo da tiro, con un muso da cervo triangolare e delicato. Aveva il vello d’un bianco scintillante; i palchi delle sue corna erano del colore dell’oro battuto. Lo fissò con occhi di rubino liquidi e imperscrutabili, quindi si avvicinò e allungò il collo a mordicchiare un rametto di pino proprio sopra la sua testa. Trattenendo il fiato come se stesse facendo qualcosa di proibito Morgon alzò una mano verso la lucida pelliccia di neve. Il vesta non parve accorgersi del suo tocco lievissimo. Dopo qualche istante Morgon osò di nuovo respirare, staccò un angolo della pagnotta. Il vesta abbassò la testa incuriosito dall’odore, annusò il pane. Lui gli accarezzò il muso affilato; l’animale ebbe un fremito sotto la sua mano ed i grandi occhi purpurei, misteriosi e lontani, si fissarono in quelli dell’uomo. Poi il vesta abbassò la testa e addentò la pagnotta, sbocconcellandola, mentre lui gli accarezzava dolcemente la sommità del cranio fra le corna. Finito il pane, il suo muso tornò ad annusargli la mano per averne dell’altro. Lui lo tolse dal cartoccio e glielo mise in bocca, un pezzo dopo l’altro, finché non ce ne fu più. L’animale esplorò le sue mani vuote, gli annusò il vestito un momento, quindi si volse e quasi senza rumore tornò a scomparire nella notte.
Morgon emise un lungo sospiro. Aveva sentito dire che i vesta erano timidi come bambini. Assai raramente se ne vedeva una pelle negli empori cittadini, poiché si tenevano alla larga dagli uomini, e il timore dell’ira di Har tratteneva chiunque, mercante o cacciatore, dall’intrappolarli. Essi seguivano la neve, e durante l’estate vagavano nelle zone più impervie delle montagne. Con improvviso disagio Morgon si domandò cosa avesse annusato l’animale, nell’aria della notte, da condurlo così lontano dalle montagne.
Era destinato a scoprirlo ancor prima del mattino. Una raffica di vento, furiosa come uno sciame d’api, gli strappò via la tenda da sopra la testa e la scaraventò nel fiume. Stringendosi al fianco del cavallo, accecato dalla neve che gli si incrostava sulla faccia, sopportò il gelo in attesa di un’alba che sembrava non arrivare mai. Quando finalmente sorse il sole, esso tramutò le tenebre della notte in un caos lattiginoso attraverso il quale Morgon non riusciva neppure a vedere il fiume, che scorreva a dieci passi da lì.