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Un devastante senso d’angoscia gli attanagliò il cuore. Paralizzato dal freddo malgrado il mantello col cappuccio che si stringeva addosso, con le raffiche della bufera che gli ruggivano attorno come branchi di lupi, incapace perfino di capire dove fosse il fiume, sentì il mondo perdere solidità e diventare un caotico inferno senza forma. Con uno sforzo cercò di ricordare la posizione del fiume. Vacillò in piedi accanto al cavallo, che tremava sotto la coperta gettata sulla sua groppa, e gli mormorò qualche parola con labbra semicongelate; mentre gli voltava le spalle lo sentì scuotersi e ansare nervosamente. Abbassando la testa contro il nevischio pungente si mosse in una direzione a caso, chiedendosi dove fosse il fiume. Se lo trovò dinnanzi all’improvviso, scintillante e rapido sotto i turbini di neve; per poco non rischiò di piombare nell’acqua a capofitto. Tornò indietro a prendere il cavallo, mezzo chino in avanti per non perdere di vista le sue impronte. Quando giunse al punto in cui esse avevano inizio, scoprì che il cavallo era scomparso.

Per un po’ di tempo non fece che guardarsi attorno e chiamarlo; il vento gli ricacciava la voce in gola. Fece qualche passo verso una forma scura nella neve, ma la vide confondersi e svanire nel biancore. Si volse, raggiunse il cumulo di neve pestata e s’accorse che fra quel dedalo d’ombre confuse l’arpa e la bisaccia non c’erano più.

Barcollò qua e là ciecamente, affondando le mani nella neve, frugando fra i cespugli e gli alberelli che emergevano come scheletri nudi da quel candore. Ogni volta che alzava la testa il vento gli ficcava negli occhi nugoli di aghi di ghiaccio. Disperato e furibondo continuò a cercare, smarrendo anche lo scarso orientamento che era riuscito a recuperare, e vacillò vagando a caso, ansimando imprecazioni al vento che ululava contro di lui.

Finalmente, senza saper come, trovò l’arpa nella sua custodia, già mezzo sepolta, e quando poté stringerla fra le mani riuscì a rimettere un po’ d’ordine nei suoi pensieri. Lo strumento era sempre nel punto in cui lo aveva lasciato, presso il cespuglio accanto al quale egli aveva trascorso la notte; il fiume, dunque, si trovava alla sua sinistra. La bisaccia e la sella dovevano essere sotto il cumulo che vedeva di fronte a sé; ma per non rischiare di perdere ancora la posizione del corso d’acqua non osò mettersi a cercarle. Si infilò l’arpa a tracolla e lentamente, passo dopo passo, tornò sulla riva del fiume.

Il suo cammino lungo il corso d’acqua fu un calvario di fatica. La necessità di non perdere di vista lo scintillio della corrente lo costringeva a stare pericolosamente vicino alla scarpata della riva; non di rado, allorché davanti ai suoi occhi tutto si confondeva in un abbacinante biancore, dovette fermarsi smarrito, chiedendosi se non si stava addentrando in un’illusione dove nulla esisteva più. La faccia e le mani, intorpidite, erano insensibili come suole di scarpa, i capelli erano diventati una crosta di ghiaccio intorno ai bordi del cappuccio. Poi perse anche il senso del tempo, e fu incapace di dire se, da quando aveva cominciato a camminare, erano trascorsi minuti o ore, né se fosse mattina o pomeriggio. Lo spettro della notte che gli si preparava bastava a farlo gemere.

A un certo punto andò a sbattere dritto contro un albero invece di girargli attorno, sebbene l’avesse visto; con la fronte poggiata al tronco scabro rimase lì, incapace di muoversi. Vagamente si domandò quanto ancora avrebbe potuto resistere, cosa sarebbe successo quando non avrebbe più saputo mettere un piede dietro l’altro, e col buio non sarebbe rimasto neppure il fiume a fargli da guida. La presenza solida dell’albero, che oscillava ritmicamente nel vento, era rassicurante. Morgon sapeva che avrebbe potuto proseguire, ma le sue braccia avevano circondato il tronco e rifiutavano di lasciarlo. Improvvisamente, poiché i suoi pensieri erano caotici come la bufera, vide il volto di Eliard davanti al suo, iroso, angosciato, e risentì la propria voce uscire da un lontanissimo passato: Ti giuro questo: io tornerò sempre indietro.

Il suo abbraccio intorno all’albero si allentò con riluttanza. Rammentò la fiducia che c’era stata negli occhi di Eliard. Se Eliard avesse dubitato di quelle parole, egli avrebbe potuto adesso radicarsi insieme a quell’albero nella bianca desolazione di Osterland; ma Eliard, testardo contadino uso a prendere alla lettera le promesse, avrebbe preteso che lui mantenesse fedelmente la parola. Riaprì gli occhi; il mondo senza colore era ancora lì, davanti al suo naso, così ostile che avrebbe voluto mettersi a piangere per la stanchezza.

Impercettibilmente, l’universo che lo circondava cominciò a farsi più scuro. Dapprima non lo notò, intento a fissare l’acqua, e poi rifletté stordito che la bufera si stava portando via anche il fiume stesso. Nell’avanzare inciampava di continuo su radici e rocce rese scivolose dal ghiaccio, e trovava sempre più faticoso agitare le braccia per riprendere l’equilibrio. Quando un sasso si mosse sotto ai suoi piedi, precipitando nell’acqua, soltanto la provvidenziale vicinanza di un alberello lo salvò dall’andargli dietro a ruzzoloni. Aggrappato al tronco si rimise in piedi, scosso da tremiti convulsi come una bestia ferita. Poi sollevò lo sguardo al cielo con un sospiro e il colore del vento lo lasciò sbigottito.

A denti stretti, schiaffeggiato dal vento, cercò di pensare. Non sarebbe sopravvissuto a una notte come quella. Avrebbe potuto trovar riparo in una grotta, in un albero cavo, o fare un tentativo d’accendere il fuoco; le probabilità di riuscire in una o l’altra di quelle cose erano ridicolmente basse. Di seguire il corso del fiume nell’oscurità non se ne parlava neppure: l’avesse perso di vista avrebbe di certo vagabondato senza meta per qualche ora, poi si sarebbe semplicemente fermato e sarebbe svanito nella neve e nel vento, trasformandosi, col suo scomparire, in un’altra curiosità di Hed, come Kern, che i Maestri avrebbero messo nella loro lista di enigmi. Considerò la sua situazione con pensieri che faticavano a prender forma, volgendo le spalle al vento per tenere almeno gli occhi aperti. Un rifugio e un fuoco, pur impossibili come apparivano, erano la sua sola speranza. Si raddrizzò contro il punto d’appoggio, rendendosi conto che era stato l’albero, non le sue gambe, a permettergli di stare in piedi. Un odoroso vapore tiepido, che lo spaventò più di quant’altro gli era accaduto quel giorno, gli investì il lato destro del volto. Sussultò e si girò: la testa candida di un vesta lo stava fissando da meno di un palmo di distanza.

Morgon non seppe mai quanto tempo restò a guardare vacuamente quegli occhi purpurei. Il vesta era immobile sotto la neve, e il vento gli scompigliava la folta pelliccia. Le mani di lui si mossero come per volontà propria, accarezzandogli il muso e il collo, mentre mormorava qualcosa più per rassicurare se stesso che l’animale. Seguendo con le mani il collo arcuato e il dorso si scostò dall’albero, vacillando contro il fianco peloso. Il vesta si mosse appena in avanti per mordicchiare un ramoscello. Lui strinse fra le dita la folta criniera, fece un profondo respiro, e con le ultime forze di cui disponeva gli saltò in groppa.

Nulla lo aveva preparato all’improvvisa, incredibile esplosione di velocità che lo trascinò come un fuscello nel cuore della bufera di neve. Chiuse gli occhi e a denti stretti si aggrappò alle corna, con l’arpa che gli sbatteva con forza contro le reni, quasi incapace di respirare nel vento divenuto simile a un muro di ghiaccio. Un grido di protesta gli uscì infine di bocca; come in risposta il selvaggio e terrorizzato galoppo rallentò, mutandosi in un trotto liscio e regolare che senza sforzo riusciva ad essere più rapido di quello di un cavallo di razza. Morgon aderì disperatamente al gran corpo tiepido dell’animale, senza domandarsi dove questi stava andando, né per quanto tempo gli avrebbe permesso di restargli in groppa, e il solo pensiero su cui si concentrò fu di rimanergli abbarbicato il più a lungo possibile, a ogni costo.