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Fu come se fosse piombato di colpo in un mondo alieno e sconosciuto. Vide l’interno del locale attraverso gli occhi di Har, e vide se stesso, immobile nell’ombra, in atteggiamento sorpreso. Esitante saggiò il continuo rivolo di ricordi che fluiva dalle profondità della mente di Har. Vide una giovane donna coi capelli schiariti dal sole, intenta ad osservare i falegnami che piegavano e intarsiavano i pannelli di legno destinati alla sua nuova casa, e seppe che era Aia. Vide un mago dai bianchi capelli lunghi e scarmigliati, a piedi nudi nella neve, che rideva mentre si mutava nella magra forma di un lupo. Vide tratti delle regioni più interne di Osterland: la tana di una volpe scavata nella terra calda, sotto il candido manto invernale, colma di piccoli cuccioli rossi; il nido di un gufo delle nevi nella forcella di un’alta betulla; una mandria di cervi che brucavano la scarsa erba di un pianoro desolato; una rustica casa di contadini nella cui cucina fumosa ogni genere di utensili pendevano dalle pareti scabre, e bambini che giocavano dinnanzi al focolare. Seguì i percorsi abituali di Har attraverso il suo regno, talvolta in forma di animale, talaltra sotto le spoglie di un vecchio dall’aria danarosa che ostentava atteggiamenti sciocchi, celando una mente indagatrice dietro due occhi sonnolenti. Quando riconobbe alcuni dei luoghi presenti in quei ricordi capì che Har non aveva limitato le sue peregrinazioni alla sola Osterland. Dalla mente dell’uomo emerse d’un tratto una casa d’aspetto quanto mai familiare, e con un sussulto di sorpresa che lo fece rientrare di nuovo nel suo corpo Morgon riconobbe la soglia di casa sua.

— Ma quando… — ansimò, con voce rauca e impastata, quasi che si svegliasse in quel momento dal sonno.

— Andai a Hed per conoscere Kern. Avevo sentito delle voci che mi avevano incuriosito molto, riguardo a lui e a una Cosa senza nome. Me n’ero quasi dimenticato. Tu hai fatto buon uso di quell’enigma.

Morgon si rimise a sedere sul pavimento di pietra. Le necessità del suo corpo gli giungevano ora come sensazioni vaghe, non più urgenti che se fossero appartenute alla sua ombra. Il fuoco si abbassò fra le braci, scomparve, tornò a danzare sui ceppi e riprese forza. Il suo calore si sparse in lente onde pulsanti. Morgon penetrò nella mente di Hugin, scoprì il suo linguaggio senza parole, condivise il verde e freddo mondo della sua infanzia, la fame, le immensità desolate, il sorriso negli occhi di un vesta. Poi Har s’impadronì ancora dei suoi pensieri, tornò a sondarli incessantemente, lo mise alla frusta, gli insegnò a infrangere gli sbarramenti di una mente chiusa e a difendere l’intimità della sua, attaccandolo, replicando ai suoi assalti, aggredendo senza sosta, finché Morgon fu sul punto di esplodere per la rabbia e la stanchezza. Svuotato, incapace perfino di odiarlo, sentì d’essere giunto al limite delle sue possibilità fisiche. Soltanto allora Har lo lasciò. Il sudore gli colava sulla faccia e sulla schiena in rivoli gelidi, ed egli s’accorse di tremare malgrado la vicinanza del fuoco.

— Quanto tempo… per quanto abbiamo… — La gola gli si bloccò, rigida come una corteccia.

— Ha forse importanza per noi? Hugin, porta del vino.

Il ragazzo s’inginocchiò accanto a Morgon e gli porse un boccale. Il suo volto giovane era tirato, intorno agli occhi aveva scure ombre di stanchezza, ma riuscì ugualmente a piegare la bocca in un accenno di sorriso. Nel minuscolo locale stagnava denso il fumo della legna, e alzando gli occhi verso il foro del soffitto velato di caligine Morgon non riuscì a capire se fuori fosse giorno o notte. Hugin aprì la porta per dare aria; raffiche di vento taglienti come lame balzarono nell’interno, trascinando refoli di nevischio. Il mondo era immerso in un’oscurità gelida e ostile, la cui vista bastò a farlo rabbrividire. Accorgendosi dei suoi tremiti Hugin s’affrettò a chiudere il battente.

— Ancora! — ordinò Har con voce ingannevolmente lieve, e s’insinuò nella mente di Morgon con artigli che graffiavano e assalivano i suoi pensieri, costringendolo a reagire con un automatismo che solo in quel momento egli scoprì di avere. Di nuovo s’intrecciarono fra loro duelli interminabili e violenti, durante i quali Morgon si sforzava con ogni mezzo di bloccare la ficcante sonda psichica di Har e, nello stesso tempo, escogitava stratagemmi per penetrare nelle difese della sua mente. Hugin era accovacciato al suo fianco silenzioso come un’ombra. A tratti Morgon riuscì a notare vagamente che dormiva, steso per terra. A tratti, quando poté liberarsi per qualche istante di Har e si volse esausto, vide i rossi occhi del ragazzo che lo fissavano e scorse nelle loro profondità l’immagine di un vesta. Poi cominciò a vedere il corpo snello e robusto di un vesta là dove avrebbe dovuto trovarsi seduto Hugin, e stupito si chiese se fossero soltanto i pensieri del ragazzo a penetrare in lui oppure se erano le sue sembianze fisiche a mutare realmente, alterando la forma umana a quella animale. A un certo punto, tornando a guardare oltre il fuoco, scorse al posto di Har un grosso lupo grigio che lo osservava con un freddo sorriso nelle iridi giallastre.

Si sfregò gli occhi col dorso delle mani, li riaprì, e dinnanzi a lui Har ebbe una smorfia secca. — Proviamo ancora.

— No — sussurrò egli, conscio che la mente e il corpo non gli rispondevano più. — No, basta.

— Allora rinuncia!

— No.

L’alito del fuoco s’impadronì di lui come un vento. Gli parve d’esserne sollevato e di vedere se stesso da grande altezza, quasi che la spoglia di carne che era stato il suo corpo non avesse più nulla a che fare con lui. Hugin e Har erano immagini di fumo, talora con le sembianze di un Re e del figlio di un mago, talaltra con quelle di un lupo e di un vesta, e parevano fissarlo con aria d’attesa. Il lupo si alzò e gli venne accanto, facendosi sempre più vicino; gli girò intorno lentamente con occhi di brace e poi gli si fermò di fronte. Morgon sentì le sue mani aprirsi, sporche di cenere umida, calde, sudate.

— Ora! — esclamò improvvisamente il lupo.

Il repentino dolore lo riportò di nuovo in se stesso. Sbarrò gli occhi, offuscati da un effluvio di cocenti lacrime salate, e le rosse pupille del vesta si confissero profondamente nelle sue. Una lama balenò minacciosa nel vortice della sua mente, dalla gola gli emerse un rantolo di protesta. Girò la testa sconvolto, desideroso soltanto di sfuggire al fumo soffocante, all’agonia della sua stanchezza, al bruciore di quella lama, e senza un grido precipitò nel mondo che c’era al di là degli occhi del vesta. D’un tratto tutto fu luce.