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I muri di pietra s’erano dissolti, lasciando il posto alla piatta e desolata linea del bianco orizzonte invernale. Intorno a lui c’era l’intima e sterminata solitudine della neve e del cielo terso, e le sue narici fiutavano il vento analizzando gli odori che portava. Da qualche parte dentro di lui un viluppo di pensieri si contorse, cercando di emergere alla superficie; li evitò e li tenne lontani, preferendo esplorare più a fondo il piacevole silenzio bianco che aveva scoperto. Sotto la cupola azzurra del cielo scivolava una brezza frizzante, carica di profumi e odori a cui s’accorse di poter dare un nome: l’acqua, una lepre, un lupo, i pini, un branco di vesta. Ascoltò la voce dura e insistente del vento, e s’accorse che soffiava con forza, ma non vi fece troppa attenzione e la sentì divenire sempre più insignificante e vuota. Trasse un lungo respiro, assaporò l’aria invernale e la voce svanì. Il vento divenne qualcosa che gli attraversava le membra, pulsava nel suo cuore, gli fluiva nelle vene, tonificava i muscoli col suo impatto forte e fremente. Avvertì la sua pressione che lo incitava, lo sfidava, e d’istinto le sue membra robuste si tesero per scattare in corsa, in una gara contro il vento.

I muri di pietra balzarono fuori dal nulla intorno a lui. Stupefatto si arrestò scalpitando, ansò in cerca di una via di fuga e fu conscio delle strane e silenziose figure che lo fissavano. Il fuoco lo morse con zanne lingueggianti, indietreggiò e si volse spaurito. Le sue corna urtarono contro la pietra scabra. E fu in quel momento, mentre il panico esplodeva in lui, che s’accorse di avere alti palchi di corna. Un attimo più tardi si ritrovò nel suo vecchio corpo familiare, scosso da tremiti, con le mani rigate di cenere e di sangue, gli occhi sbarrati in quelli di Har.

Hugin aprì la porta. La morbida luce del pomeriggio scintillava sullo strato di neve oltre la soglia. Quando Har si alzò in piedi stava tremando anch’egli. Non disse una parola, e Morgon, che ormai conosceva la mente del Re quanto la propria, sentì l’ondata di panico ritrarsi da lui lasciando il posto a una spossatezza greve come una malattia. Vacillò fino alla soglia e si appoggiò allo stipite, avido d’aria pulita, sfregandosi le mani sporche sulla tunica malconcia. Stranamente si sentiva invaso da un inspiegabile senso di malinconia, come se avesse voltato le spalle per sempre a qualcosa che era una parte di lui. Har gli mise una mano su una spalla.

— Riposa, adesso. Devi dormire. Hugin…

— Lo so. Lo accompagno io.

— Fasciagli le mani. Resta con lui. Riposatevi, tutti e due.

CAPITOLO NONO

Mentre le mani di Morgon guarivano, Har continuò ad addestrarlo; egli imparò così a mantenere la forma-vesta per lunghi periodi di tempo. Hugin gli fece da guida nei dintorni di Yrye, gli insegnò a nutrirsi dei teneri germogli di pino nella boscaglia che circondava la città, e si arrampicò con lui sulle pendici rocciose e ammantate d’alberi di Monte Fosco, che si levavano a settentrione di Yrye. Dapprima gli istinti da vesta non fecero che confondere Morgon; combatté contro di essi come se si sentisse affogare in una palude, e il solo risultato fu che si ritrovò di nuovo in forma umana e mezzo nudo nella neve gelida, con Hugin che lo annusava e gli inviava mentalmente consigli seccati.

Devi rilassarti, Morgon, devi correre. Tu ami galoppare come un vesta; non c’è nulla che possa spaventarti in questo. Esci da quel mucchio di neve, Morgon!

Galopparono fianco a fianco sulla neve per miglia e miglia, senza stancarsi, sfiorando appena la coltre bianca con gli zoccoli, i cuori possenti che pompavano linfa vitale nei loro muscoli agili e veloci. Spesso tornarono a Yrye soltanto a sera, talvolta a notte tarda, portando sui loro mantelli di pelo la neve e il silenzio delle solitudini invernali dove avevano vagato. Har li attendeva nel salone della sua dimora, dove si attardava a chiacchierare con Aia o ad ascoltare pigramente la musica dell’arpista accanto al grande focolare. Durante questo periodo di apprensione Morgon non parlò molto con Har, quasi che nella sua mente vi fossero cicatrici che stentavano a guarire più delle mani. Har lo osservava tornare e si limitava a fissarlo, taciturno anch’egli. Vi fu infine una notte in cui Eliard e Hugin rientrarono quand’era buio da un pezzo, e il suono inatteso delle loro risate che si spensero soltanto sulla soglia del palazzo fece comparire un sorriso negli occhi di Aia. Morgon si diresse senza esitare verso Har e si gettò a sedere accanto a lui, mentre Hugin andava in cucina in cerca di cibo. Sollevò le mani aperte e contemplò pensosamente le bianche cicatrici a forma di corna di vesta rimaste sulle palme.

Har inarcò un sopracciglio. — Essere un vesta non è poi una cosa tanto spiacevole, in fondo. No?

Lui dovette sorridere. — No. Ho imparato a goderne. Amo il silenzio che mi porta dentro. Ma come potrò mai spiegarlo a Eliard?

— Questa — disse freddo Har, — dovrebbe essere l’ultima delle vostre preoccupazioni. Altri sono venuti a cercarmi da quando regno in Osterland, supplicandomi d’insegnar loro i segreti della mente che consentono di mutar forma; e soltanto pochissimi hanno lasciato questa casa con il marchio del vesta sulle mani. Voi avete grandi doti. Hed era un mondo troppo piccolo per voi.

— È un fatto senza precedenti. Come potrò spiegarlo al Supremo?

— Perché dovreste giustificare con altri le vostre capacità?

Morgon lo fissò con calma. — Har, anche voi, malgrado gli argomenti che avete usato con me, sapete che devo sempre rispondere al Supremo dei miei doveri come sovrano di Hed, non importa quanti strani arpisti usciti dal mare vogliano chiamarmi Portatore di Stelle. Preferisco vedere le cose a questo modo, finché possibile.

Il sorrisetto scomparve dallo sguardo di Har. — Forse soltanto il Supremo potrà schiarirvi le idee su questo. Siete pronto a mettervi alla ricerca di Suth?

— Sì. Ho alcune domande da fargli.

— Benissimo. Presumo che si aggiri nella zona dei laghi a nord di Monte Fosco, sul confine delle immense terre bianche settentrionali. Sull’alto lato della montagna c’è un grande branco di vesta; li ho avvicinati assai di rado. È il solo angolo del mio regno in cui non abbia frugato in lungo e in largo, e altrove non ho mai trovato traccia di lui. Hugin vi condurrà lassù.

— Venite con noi.

— Impossibile. Da me sfuggirebbe, come ha fatto in questi settecento anni. — Tacque, e Morgon ebbe l’impressione di vedere i suoi pensieri scivolare verso qualche ricordo lontano e per lui sgradito.

— Capisco — disse. — Questa spina è piantata anche nella mia testa: perché? Voi conoscete Suth. Da cosa sta fuggendo?

— Un tempo ero convinto che avrebbe preferito morire piuttosto che sfuggire a qualcosa. Siete sicuro di sentirvi pronto? È un’impresa per cui potrebbero occorrervi dei mesi.

— Sono più che pronto.

— Allora partite domani all’alba con Hugin, e senza farvi notare troppo. Cercate oltre Monte Fosco; e se non troverete segno della presenza di Suth spostatevi a esplorare lungo l’Ose… ma attento alle trappole dei bracconieri. Avvicinate più vesta possibile: loro sentiranno che siete in parte uomo, e se Suth è in contatto coi branchi verrà a sapere di voi. Se la cosa dovesse rivelarsi pericolosa, lasciate perdere e tornate immediatamente a Yrye.

— Farò così — mormorò Morgon, distratto. Nella sua mente era scivolata all’improvviso la visione delle lunghe monotone settimane che lo attendevano oltre le nevi della montagna, nelle desolazioni dell’entroterra, dove avrebbe vissuto ai lenti ritmi del giorno e della notte, del vento, della neve, e del silenzio che aveva cominciato ad amare. Gli occhi di Har che lo fissavano con insistenza lo trascinarono fuori da quelle fantasie. In essi c’era una fredda luce d’avvertimento.