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— Se trovaste la morte sotto forma di vesta nella mia terra, non potrò evitare che il vostro amico arpista venga a bussare alla mia porta, pieno di domande imbarazzanti. Perciò badate a voi.

Partirono alle prime luci del giorno, entrambi in forma di vesta. Hugin guidò Morgon su per i versanti di Monte Fosco, attraverso immense gole granitiche dove le capre di montagna li fissavano incuriosite da lontano, mentre i falchi veleggiavano alti nel vento in cerca di preda. Quella notte dormirono fra le rocce; il giorno dopo valicarono un passo e cominciarono a scendere verso la zona dei laghi freddi oltre Monte Fosco, dove non viveva nessuno salvo pochi cacciatori, che tendevano trappole e vendevano le pelli ai mercanti disposti a spingersi sui confini delle desolazioni settentrionali. Mandrie di vesta si spostavano come banchi di nebbia su quelle terre, senza che nessuno li disturbasse. Morgon e Hugin si unirono a loro tranquillamente, agendo in modo da non provocare la sfida del capobranco, e gli animali li accettarono come già avevano accettato Har: una creatura strana ma non minacciosa. Si spostarono seguendo l’uno o l’altro branco nella zona impervia fra i laghi, nutrendosi di germogli di pino, dormendo ogni notte all’aperto senza timore del vento, che non penetrava nelle loro spesse pellicce. Ogni tanto accadde loro di vedersi seguiti dai lupi, bestie magre, caute quanto affamate, e Morgon cominciò a sentire i loro ululati perfino nei sogni. Durante la marcia li fronteggiava però senza paura, conscio che i soli a dover temere le loro zanne erano i vesta molto giovani o quelli vecchi e malati, isolati dal gruppo. Morgon e Hugin restavano con un branco per il tempo necessario a cercare in esso un animale guercio, che corrispondesse in qualche modo all’immagine di Suth, e quindi si mettevano sulle tracce di un altro gruppo nelle profondità della foresta o lungo le rive dei laghi ghiacciati che scintillavano argentei sotto la luna. E finalmente Morgon vide qualcosa che corrispondeva all’immagine che s’era costruita nella mente: l’immagine di un vesta con un occhio solo, purpureo, mentre l’altro era bianco come fosse occluso da una cataratta.

Viaggiava da solo quando scoprì quel branco. Si avvicinò, pascolò con gli altri animali, e frugando nei loro pensieri trovò il ricordo: essi avevano conosciuto quella presenza. Li seguì lungo i bordi di una foresta e si accovacciò a dormire fra loro, nella speranza che il vesta guercio prima o poi si riunisse al branco. Hugin era lontano oltre le colline, e vagava fra i laghi anch’egli alla ricerca della stessa immagine. Il tempo trascorse, venne la luna piena, calò fino all’ultimo quarto e fu la luna nuova, e ad ogni notte insonne e agitata che trascorse in quell’attesa Morgon tornò a vederla crescere nel cielo, spicchio dopo spicchio, senza che nulla accadesse. Innervosito prese ad aggirarsi da solo più a settentrione, sul confine delle terre gelate. Un giorno oltrepassò le ultime basse colline e spinse lo sguardo sulla piatta immensità nordica, bianca e senza vita. Il vento sollevava refoli di neve e li trascinava in grigi turbini attraverso quella sterminata desolazione, dove null’altro sembrava muoversi fino all’orlo del mondo. Nessuna creatura dal sangue caldo si avventurava verso quell’orizzonte piatto, su cui perfino il cielo appariva immoto e incolore. Volgendosi a ovest vide, lontanissimo, il profilo del Monte Erlenstar che sovrastava terre altrettanto gelide e inospitali. Con un brivido di sconforto abbassò il capo, annusò quella neve ostile e senza tracce, poi tornò indietro e si diresse di nuovo nell’interno di Osterland.

Fu mentre scendeva da quelle alture che scorse per caso un vesta dietro un boschetto. Aveva il mantello chiazzato di bianco per l’età avanzata, e le sue grandi corna erano intrappolate da qualcosa entro un mucchio di neve. A testa bassa, sbuffando, inarcava il collo e cercava di far forza con le zampe, nel tentativo di liberare le corna dal garbuglio che le aveva imprigionate, e nel far ciò non s’era accorto della presenza di alcuni lupi che vedendolo in difficoltà gli si stavano portando alle spalle. Sottovento rispetto a loro Morgon sentì nell’aria l’odore acre e ferino dei predatori. Un attimo dopo, spinto da un impulso che sorprese lui stesso, si trovò a galoppare furiosamente verso le belve mentre dalle sue nari scaturiva un mugolio che mai si sarebbe creduto capace di emettere.

Sotto l’attacco delle sue lunghe corna i lupi ringhiarono e scattarono qua e là, disperdendosi fra i cespugli e le rocce. Ma il capobranco, folle di rabbia, balzò ad azzannare il muso di Morgon e poi si gettò ancora sul vesta intrappolato. In un impeto di cieca furia Morgon roteò su se stesso, con uno scatto delle corna scaraventò via un lupo che balzava su di lui dall’alto di un macigno e si precipitò sul capobranco. Il suo zoccolo anteriore destro colpì il cranio del lupo con la violenza di un’accetta, facendogli schizzare le cervella sulla neve, ed egli ansò soddisfatto. Ma l’emozione e l’odore del sangue sconvolsero i suoi istinti, un’improvvisa confusione mentale lo travolse e lo trascinò fuori dalla forma-vesta. E subito dopo si ritrovò a piedi nudi nella neve, vacillante, stordito e in preda alla nausea.

La repentina apparizione di un essere umano aveva spaventato i lupi, che disparvero nella boscaglia. Morgon imprecò, si massaggiò le braccia infreddolite e andò ad inginocchiarsi davanti al vesta. Frugando con dita intirizzite nella neve trovò i rami del cespuglio che gli avevano imprigionato le corna. Sospirò, alzò una mano ad accarezzare il capo dell’animale per tranquillizzarlo, e scoprì di guardare un occhio cieco e bianco.

Si fece indietro e sedette sui talloni. Il vento s’infiltrava sotto il leggero tessuto della sua tunichetta, raggelandolo, ma quasi non se ne accorse. Incuriosito spinse la mente oltre quell’occhio velato, e un breve contatto in cui sfruttò con destrezza la sua capacità di sondare i pensieri bastò a confermargli quel che voleva sapere.

— Suth? — chiese. Il vesta lo fissò, immobile. — Ti stavo cercando.

Qualcosa di oscuro dilagò nella sua mente, annichilendo i sensi. Era una tenebra contro cui lottò spaventato, disperato, conscio solo che da essa emergeva un comando perentorio, una volontà che cercava di dominarlo infilandosi in lui come una lama. Si accorse che le sue mani si muovevano da sole, scavando freneticamente la neve intorno ai rami. E solo allora l’impulso che l’aveva fatto agire alla cieca si smorzò. Avvertì una sonda psichica che si calava nei suoi pensieri, e la presenza di una strana mente sconosciuta intenta a frugare la sua in profondità, ma non si mosse finché non la sentì ritrarsi. Poi l’ordine silenzioso echeggiò di nuovo in lui: Liberami!

Spezzò i rami aggrovigliati sotto la neve. Il vesta diede alcuni strattoni e quando finalmente le sue corna si districarono indietreggiò, sollevando di scatto la testa. Il corpo del quadrupede si dissolse come fumo. Un istante dopo dinnanzi a Morgon c’era un uomo, magro ma robusto, con una criniera di capelli bianchi che ondeggiavano al vento ed un solo occhio, grigio con riflessi d’oro.

Con un gesto brusco l’individuo scostò i capelli dalla fronte di Morgon, mettendo allo scoperto le tre stelle. Poi gli afferrò le mani, le volse a palmo in su e sfiorò le cicatrici sulle sue palme, e qualcosa che poteva essere il barlume di un sorriso lampeggiò nel suo unico occhio.

Lo agguantò per le spalle con energia, quasi per accertarsi della sua concretezza umana, e la sua voce suonò incredula: — Hed?

— Morgon di Hed.

— La speranza che io vidi più di mille anni fa è dunque un isolano… un Principe di Hed? — La sua voce era profonda, rauca come avesse taciuto per secoli, fremente. — Tu hai conosciuto Har; è stato lui a lasciare questo marchio su di te. Bene. Avrai certo bisogno di tutto l’aiuto che riuscirai a trovare.

— L’aiuto che io cerco è il vostro.

La bocca sottile del mago si contrasse. — Io non posso darti niente. Har avrebbe dovuto saper far di meglio che mandarti da me. Ha sempre avuto occhi acuti; dovrebbe aver visto.