— Trovò poi quel bracconiere?
— Credo di sì. Prima di lasciare Isig ne esplorò ogni roccia e ogni sentiero. Sta bene?
— Sì.
— Sono lieto di saperlo. Dovrebbe essere un vecchio lupo, adesso, così come io sono un vecchio albero. — Si fermò. — Ascoltate. Da qui si può udire la voce dell’acqua che scorre attraverso Isig, sotto di noi.
Morgon tese gli orecchi. Il mormorio incessante del fiume era un sottofondo di musica su cui le raffiche di vento cantavano la loro aspra e mutevole canzone. Accanto a loro si levavano alture scarsamente innevate, le cui cime svanivano lontano nella nebbia, mentre più indietro Kyrth sembrava essersi rimpicciolita, chiusa nell’immensa curva della montagna.
— Mi piacerebbe visitare l’interno di Isig — disse d’un tratto.
— Davvero? Ve lo mostrerò io. Conosco quella montagna meglio delle mie tasche.
Morgon lo fissò. Su quel volto già anziano, barbuto, le rughe si contrassero in un lievissimo sorriso. — Chi siete voi? Siete forse Danan Isig? Non riesco a sentire i vostri pensieri. È perché siete appena uscito dal vostro mutamento di forma?
— Come se fossi stato un albero? Certo, a volte mi capita di stare tanto a lungo fermo nella neve a guardare gli alberi, chiusi nei loro pensieri silenziosi, che dimentico me stesso e divento un loro simile. Qui ci sono alberi vecchi come me, vecchi come Isig… — Tacque. Il suo sguardo corse sugli abiti di Morgon, sui suoi capelli scompigliati, sulla sua arpa, poi aggiunse: — Ho sentito i mercanti dire qualcosa circa un Principe di Hed che viaggia verso Monte Erlenstar, ma questa potrebbe essere soltanto una chiacchiera; sapete quanto siano pettegoli…
Morgon sorrise. Gli occhi verdi gli restituirono un’espressione cordiale. Ripresero a camminare, e dal cielo cominciò a scendere un nevischio sottile che si appiccicava alla peluria dei loro mantelli. La strada girò intorno a un’ultima alta sporgenza rocciosa e si allargò, diretta alla fortezza di Harte che ora appariva in tutta la sua estensione, sormontata da torrette coniche, come cime di abeti. Le finestre, dai vetri colorati come mosaici, brillavano alla luce interna delle torce. La strada s’immergeva dritta in un’immensa arcata.
— Questa è la porta di Isig — disse Danan Isig. — Nessuno può entrare e uscire dalla montagna senza che io lo sappia. I più grandi artisti di Isig sono stati addestrati nella mia dimora, e hanno lavorato i metalli e le gemme della mia terra in questo luogo. Mio figlio Ash li istruisce, come un tempo faceva Sol, prima d’essere ucciso. Fu Sol a intagliare le stelle che Yrth inserì nella vostra arpa.
Morgon sfiorò la cinghia dell’arpa. Le parole di Danan avevano fatto penetrare in lui una sensazione di antichità, di inizi radicati nelle profondità del passato. — Perché Yrth incastrò le stelle nell’arpa?
— Non lo so. Non me lo chiesi, a quel tempo… Yrth lavorò sull’arpa per mesi, incìdendola ed elaborando i disegni degli incastri; disponeva dei miei artigiani per tagliare l’avorio, le pietre preziose e i lavori in argento. E poi salì a isolarsi all’ultimo piano della più antica torre di Harte per accordare le corde. Restò là sette giorni e sette notti, e durante quel periodo feci chiudere la fonderia in cortile perché il fracasso dei fabbri non lo disturbasse. Infine si decise a scendere e suonò per noi. Non c’era arpa più bella in tutto il mondo. Ci disse che per essa aveva rubato la voce del vento e delle acque di Isig. E ci lasciò senza fiato, l’incanto di quell’arpa e del suo arpista… Quando terminò di suonare rimase immobile un istante, con gli occhi fissi sullo strumento. Poi passò lentamente una mano sopra le corde, ed esse divennero mute. Allorché noi tutti protestammo egli rise, e disse che sarebbe stata l’arpa stessa a scegliere il suo arpista. Il giorno dopo se ne andò, portandola con sé. Quando fece ritorno al mio servizio, un anno più tardi, non menzionò l’arpa mai più. Fu come se tutti avessimo soltanto sognato di vederla costruire.
Morgon si fermò. La mano con cui stringeva la cinghia dell’arpa ebbe un tremito mentre il suo sguardo scorreva sulla lontana parete d’alberi velati di nebbia, quasi che per un attimo fugace avesse scorto la misteriosa figura di quel mago prender forma nel crepuscolo. — Mi domando…
— Che cosa? — lo interrogò Danan.
— Niente. Mi piacerebbe parlare con lui.
— Anche a me. Era al mio servizio fin quasi dall’Anno dell’Insediamento. Giunse qui da qualche strano posto a occidente del Reame, di cui non avevo mai sentito parlare, e ogni tanto se ne andava da Isig per un anno intero, a esplorare altre terre, a conoscere altri maghi, altri Re… ogni volta che faceva ritorno dava l’impressione d’essere più potente, e anche più gentile. Aveva la curiosità di un mercante e una risata che rimbombava fin nelle cantine. Fu lui a scoprire la Caverna dei Perduti. E quella fu l’unica volta in cui lo vidi completamente serio. Mi disse che io avevo costruito la mia dimora su un’ombra oscura, e che sarei stato saggio a dimenticare la presenza di quest’ombra. Così i miei minatori son sempre stati attenti a starne alla larga, specialmente dopo che trovarono il cadavere di Sol dinnanzi a quella porta… — Tacque un poco, poi come se intuisse la domanda inespressa di Morgon aggiunse: — Yrth mi condusse là una volta, per mostrarmela. Non si è mai saputo chi fu a costruire la porta di quella caverna; era laggiù prima che io giungessi qui, fatta di marmo verde e nero. L’interno della caverna era incredibilmente bello e prezioso, ma… non c’era niente là dentro. Niente che io potessi vedere.
— Niente?
— Soltanto le pietre, il silenzio, e la spaventosa sensazione di qualcosa che giaceva oltre la portata degli occhi, come l’angoscia della morte in fondo al cuore di un uomo. Domandai a Yrth cosa fosse quell’impressione, ma egli non me lo disse mai. Laggiù accadde qualcosa, prima della fondazione di Isig, molto tempo prima della venuta dell’uomo nel Reame del Supremo.
— Forse durante le guerre dei Signori della Terra.
— Suppongo che debba esserci un nesso. Ma quale, non so dirlo. E il Supremo, seppure sa quel che è successo, non ne ha parlato mai.
Morgon ripensò alla bellissima città in rovina sulla Piana del Vento, ai frammenti di cristallo che aveva trovato in una delle vuote stanze prive di tetto, e che gli erano parsi contenere un accenno di risposta a certe domande. E all’improvviso quel ricordo fece nascere in lui la gelida paura di quella che poteva essere la risposta, costringendolo a fermarsi ancora sulla neve, gli occhi fissi sulle montagne nude e bianche come ossa spolpate che aveva di fronte. La sua voce fu un sussurro: — Guardati dagli enigmi senza risposta!
— Cosa?
— Nessuno sa chi o cosa distrusse i Signori della Terra. Chi può esser stato ancor più potente di loro, e in quale forma questo potere si è scatenato…
— Ma accadde migliaia di anni fa — obiettò Danan. — Cosa può avere a che fare questo con noi?
— Niente. Forse. Ma noi abbiamo dato per certa questa considerazione per migliaia di anni, e il saggio sa che non deve dar nulla per certo.
Il Re della montagna lo fissò con stupore. — E cos’è che voi vedete incombere su di noi nelle tenebre, e che nessun altro può vedere?
— Non lo so. Qualcosa senza nome…
Giunsero alla grande arcata dell’ingresso di Harte proprio mentre la neve cominciava a cadere più fitta. Il cortile interno, dove si aprivano le fonderie e i laboratori degli artigiani, era deserto; qua e là strisce di luce giallastra si allungavano fuori da porte semiaperte; le ombre di alcuni artigiani al lavoro si stagliavano sulla soglia di qualche bottega. Danan condusse Morgon attraverso il cortile e lo fece entrare in un salone le cui pareti scabre erano come filigranate di gemme preziose multicolori, incastonate nella pietra. Un ruscello artificiale seguiva un percorso curvilineo attraverso il pavimento, passando di fronte a un enorme caminetto le cui fiamme lingueggiavano specchiandosi nell’acqua scura. Numerosi minatori, artigiani dalle vesti semplici e quasi incolori in uso sulle montagne, mercanti nei loro ricchi abiti esotici, cacciatori vestiti di cuoio e pellicce, si volsero nel vedere Danan entrare, e Morgon d’istinto si spostò in una zona d’ombra dove la luce delle torce giungeva meno intensa, per evitare i loro sguardi.