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Danan gli accennò di seguirlo con un gesto cortese. — Nella torre orientale c’è una camera tranquilla dove potrete lavarvi e riposare; scenderete più tardi, quando ci sarà meno gente. Molti di quelli che vedete lavorano qui, e torneranno a Kyrth dopo cena. — Usciti dal salone, Danan gli fece strada in un corridoio e su per una rampa di scale che spiraleggiava nell’interno di una grande torre. — Questa è la torre in cui abitava Yrth. Talies era solito fargli visita qui, e un paio di volte venne anche Suth. Suth era scontroso e selvatico, e ricordo che aveva una gran massa di capelli bianchi anche da giovane. Evitava i minatori come se avesse paura, ma una volta lo vidi cambiare una forma dopo l’altra per divertire i miei figli. — Si fermò su un pianerottolo e scostò una tenda di pelliccia bianca oltre la quale c’era un corridoio. — Manderò un servo ad accendervi il fuoco. — Poi ebbe una lieve esitazione. — Se non è domandarvi troppo, mi piacerebbe udire ancora la musica di quest’arpa.

Morgon sorrise. — Non domandate troppo, no. Vi sono molto grato per la vostra cortesia.

Entrò nella camera e depose l’arpa e la bisaccia. Le pareti erano tappezzate di pellicce d’animale e di arazzi, ma nel caminetto pulitissimo non c’erano ceppi pronti e faceva freddo. Sedette sulla pesante seggiola di fronte ad esso. Le mura, circolari, erano una prigione di silenzio intorno a lui. Non udiva né una risata né un fil di voce giungere dalla parte del salone, né il soffiare del vento all’esterno. Un senso di solitudine, ancor più profondo di quello che l’aveva accompagnato nel suo viaggio in terre così desolate, lo sommerse. Chiuse gli occhi, colto da una stanchezza che gli sorgeva dall’anima più che dal corpo, e per vincerla fu costretto ad alzarsi, innervosito. Giusto allora alcuni servi comparvero portando legna da ardere, acqua, vino, e un vassoio di cibarie miste; restò a osservarli mentre accendevano il fuoco, sistemavano sottili torce alle pareti e mettevano acqua a scaldare nel camino. Quando se ne andarono sedette a lungo senza far altro che guardare il fuoco, con gli occhi fissi nelle fiamme. L’acqua cominciò a bollire. Si spogliò lentamente e si lavò. Mangiò senza quasi sentire il sapore delle vivande, si versò un boccale di vino, poi invece di bere s’appoggiò allo schienale della sedia e ascoltò la notte chiudersi come una mano oscura intorno alla torre, mentre l’inspiegabile inquietudine si torceva e si addensava sempre più nel fondo del suo cuore.

Lasciò che le palpebre gli si chiudessero. Per un poco galoppò con i vesta che conosceva sulla superficie dei suoi sogni, finché non si ritrovò sprofondato nella neve in forma umana e il branco svanì in distanza. Poi, odiando quella solitudine insopportabile, attraversò lo spazio e il tempo con l’abilità di un mago e riprese solidità ad Akren. Eliard e Grim Oakland stavano chiacchierando davanti al caminetto; si accostò a loro con passi ansiosi e chiamò il fratello per nome. Eliard si volse, e nel vuoto stupore dei suoi occhi Morgon vide rispecchiato se stesso, i suoi capelli sciolti, la sua faccia segnata, le livide cicatrici del vesta pulsanti sulle sue mani. Sono Morgon! gridò. Ma Eliard scosse il capo perplesso e rispose: Devi essere in errore. Morgon non è un vesta. Morgon si volse allora a Tristan, che era immersa in una divagante e sconnessa discussione con Snog Nutt. Lei gli sorrise speranzosa, con ansia, la ma speranza morì subito nei suoi occhi e fu sostituita da una gran delusione. Snog Nutt brontolò tristemente: Lui disse che mi avrebbe aggiustato il tetto prima della stagione delle piogge, ma non lo ha fatto e se n’è andato, e non è più tornato. Bruscamente si ritrovò a Caithnard, nell’atto di bussare a una porta. Rood la spalancò, facendo svolazzare una larga manica nera, ed esclamò: Arrivi troppo tardi. E comunque, lei è una delle due donne più belle di An; non può certo sposare un vesta. Girandosi Morgon vide uno dei Maestri che usciva dalla biblioteca. Corse a raggiungerlo. Alle sue preghiere la testa abbassata e cespugliosa finalmente si volse; gli occhi gravi e colmi di rimprovero del Maestro Ohm lo fissarono accusatori, ed egli si arrestò terrorizzato. Il Maestro si allontanò senza una parola, mentre lui lo seguiva gemendo: Mi dispiace, mi dispiace, mi dispiace!

D’un tratto fu a Piana del Vento. Era scuro, e la superficie verde-blu del mare stagnava pigra in una notte senza luna, balenante di luci ultraterrene, ma la mole del Monte Isig si levava così vicina che riusciva a vedere le finestre illuminate della dimora di Danan. Qualcosa stava crescendo in quella tenebra; non avrebbe potuto dire se fosse il vento o il mare; tutto ciò che sapeva era che una cosa immane stava costruendo se stessa, poderosa, senza nome, inesorabile, e risucchiava entro di sé tutte le energie, tutte le leggi e i progetti umani, tutte le canzoni e gli enigmi e le leggende, per farle poi esplodere nel caos sulla Piana del Vento. Cominciò a correre in cerca di un rifugio, disperatamente, sferzato da spaventose raffiche di tempesta mentre il mare distante oltre mezzo miglio sollevava ondate così alte che gli spruzzi arrivavano a schiaffeggiarlo. Fuggì verso le luci della fortezza di Danan. Ma pian piano, mentre correva, cominciò a capire che anche Harte era una rovina, distrutta e vuota come la città dei Signori della Terra, e che quelle bianche luci simili a riflessi di ossa scarnificate provenivano da profondi recessi sotto l’Isig. Si fermò. Dalla montagna provenne una voce, echeggiando da una caverna la cui porta di marmo verdastro non veniva aperta da secoli, e, al di sopra della nera furia del cielo e del mare, gridò il suo nome:

— Portatore di Stelle!

CAPITOLO DECIMO

Si svegliò con un sussulto, il cuore che gli batteva forte, gli orecchi ancora feriti dall’eco della voce che lo aveva strappato al sonno; gli parve che indugiasse strana, né di uomo né di donna, fra le pareti della torre. Qualcuno lo stava scuotendo per una spalla e pronunciava il suo nome, qualcuno tanto a lui familiare che la reazione di Morgon non fu per nulla sorpresa: — Mi hai chiamato? — chiese. Poi le sue mani si sollevarono di scatto, attanagliando le braccia dell’arpista.

— Deth!

— Avevi un incubo.

— Sì. — I muri della stanza, il fuoco e il silenzio tornarono solida realtà intorno a lui. Le sue mani si rilassarono lentamente e ricaddero. L’arpista aveva uno spolverio di neve sul mantello e sui capelli; allentò la cinghia dell’arpa che portava a tracolla e la appoggiò contro il muro.

— Ho preferito aspettarti anonimamente a Kyrth, piuttosto che qui ad Harte; Danan non sapeva che io fossi ancora in città, così non te l’ha detto. — La sua voce, sempre così flemmatica, si addolcì. — Ci hai messo molto più tempo di quanto mi sarei atteso.

— Mi sono sperduto in una tormenta. — Si raddrizzò e si passò le mani sulla faccia. — È stato allora che ho incontrato Har, e… — Sollevò bruscamente lo sguardo in quello dell’arpista. — Tu mi stavi aspettando? Tu aspettavi che… Deth, da quanto sei qui?

— Due mesi. — L’uomo si tolse il mantello; grumi di neve sfrigolarono nel fuoco. — Ho lasciato Herun il giorno successivo alla tua partenza, e ho risalito il corso dell’Ose senza mai fermarmi fino a Kyrth. Ho detto a Danan che probabilmente saresti arrivato in città, e l’ho pregato di indirizzarti dove ho preso alloggio, poi… ho aspettato. — Tacque un istante. — Ero molto preoccupato.