Le dita di lui ricreavano quella tragica storia dalle corde ben tese e scintillanti, e Morgon lo ascoltava immobile, senza distogliere gli occhi dal suo volto calmo e distaccato. L’abilità di quelle mani e la voce addestrata da anni di canti trasformavano in musica il destino di Bilo, la sua sregolatezza e la sua violenza, la morte che aveva lasciato dietro di sé, la morte che lo inseguiva, correndo dietro il suo cavallo, alle spalle di Belu, correndo accanto al suo cavallo come un cane da caccia.
Il lungo sospiro sciabordante di un’ondata ruppe il silenzio che era seguito all’ultima nota. Morgon si riscosse. Poggiò una mano sullo scuro profilo dell’arpa ruvido di intarsi.
— Pur di estrarre una melodia simile da questo strumento, sarei disposto a vendere il mio nome e ad andare in giro senza nome.
Deth sorrise. — Questo è un prezzo un po’ troppo alto da pagare, anche per un’arpa di Uon. Quanto vi hanno chiesto i mercanti?
Lui scrollò le spalle. — Si accontenteranno di ciò che potrò offrire.
— E la desiderate molto?
Morgon lo fissò. — Per averla venderei il mio nome, ma non il grano su cui i miei fattori si sono rotti la schiena con le falci, né i cavalli da tiro che hanno allevato e addestrato. Posso pagare soltanto con ciò che mi appartiene.
— Non avete bisogno di giustificarvi con me — disse gentilmente l’arpista. Morgon si umettò la crosta sul labbro ferito, annuendo.
— Mi spiace darvi quest’impressione. Dev’essere perché ho trascorso la mattina a cercare di giustificarmi con me stesso.
— Per quale motivo?
Gli occhi di lui si abbassarono sulle borchie di ferro che fissavano i tronchi del pontile. D’impulso, la calma con cui quello straniero così sensibile lo ascoltava lo indusse a chiedere: — Voi conoscevate i miei genitori. Sapete come sono morti?
— Sì.
— Mia madre aveva sempre desiderato visitare Caithnard. Quando studiavo là mio padre era venuto due o tre volte a trovarmi, alla Scuola dei Maestri degli Enigmi, a Caithnard. Questo sembra facile a dirsi… ma per riuscire a farlo gli occorse un grande coraggio: lasciare Hed, recarsi in una vasta e popolosa città straniera. I Principi di Hed sono radicati alla terra di quest’isola. Quando tornai a casa mia, un anno fa, dopo tre anni trascorsi a Caithnard, trovai mio padre pieno di storie e aneddoti su quel che aveva visto nel continente… i mercati e le fiere, la gente d’ogni razza e provenienza… e quando egli raccontò di un emporio dove vendevano pezze di stoffa e pellicce e vesti dei regni più lontani, mia madre non seppe più resistere al desiderio di andare. Adorava le stoffe fini, dai colori esotici, morbide al tatto. Così questa primavera, al termine degli scambi di stagione, si imbarcarono coi mercanti e partirono. Ma era destino che non rivedessero più Hed. La nave con cui tornarono… andò perduta. Non tornarono, da quel viaggio. — Abbassò una mano sulla testa di un grosso chiodo, tracciandovi intorno lenti circoli. — C’era una cosa che io volevo fare da molto tempo. La feci, allora. Mio fratello Eliard ne è venuto a conoscenza soltanto questa mattina. A quel tempo non gli dissi nulla perché sapevo che sarebbe andato fuori di sé. Trovai una scusa, raccontai a tutti che intendevo andare per qualche giorno nell’ovest di Hed, e segretamente mi imbarcai per An.
— Per An? Ma perché… — L’uomo s’interruppe. La sua voce si abbassò in un sussurro. — Morgon di Hed, voi avete vinto la corona di Peven?
Morgon alzò di scatto la testa. Dopo qualche istante disse: — Sì. Ma come fate a…? Sì.
— Non lo avete riferito al Re di An…
— Non l’ho detto a nessuno. È una cosa di cui preferisco non parlare.
— Auber di Aum, uno dei discendenti di Peven, è andato in quella torre per tentar di riconquistare la corona di Aum al nobile defunto, ed ha scoperto che la corona non c’era più, e che Peven supplicava d’esser libero di lasciare la torre. Invano Auber ha chiesto il nome dell’uomo che aveva preso la corona: Peven gli ha risposto soltanto che non intendeva più rispondere a nessun enigma. Auber ne ha riferito a Mathom. E Mathom, messo di fronte al fatto che qualcuno s’era aggirato non visto nella sua terra, riuscendo a vincere una gara di enigmi che per secoli era costata la vita a molti uomini, e che se n’era poi andato altrettanto furtivamente, mi ha convocato a Caithnar incaricandomi di rintracciare questa corona. Hed è l’ultimo dei posti dove mi aspettavo di trovarla.
— Finora se n’è stata sotto il mio letto — disse vagamente Morgon. — L’unico posto sicuro di Akren. Però non capisco. Forse che Mathom la rivuole? Io non ne ho bisogno. Non le ho neppure dato un’occhiata da quando l’ho portata a casa. Ma credo che Mathom, più di ogni altro, dovrebbe capire…
— La corona vi appartiene di diritto. Mathom sarebbe l’ultimo a contestarvelo. — Fece una pausa; nei suoi occhi c’era un’espressione che confuse Morgon. Poi aggiunse, gentilmente: — È vostra, se così volete, e anche la figlia di Mathom, Raederle.
Morgon deglutì. Si ritrovò in piedi, con gli occhi sbarrati sull’arpista. Ma subito poggiò un ginocchio al suolo perché d’improvviso, invece dell’uomo che aveva davanti, i suoi occhi rivedevano l’immagine di un volto pallido e fine colmo di espressioni inattese, e l’atto con cui quella testa scuoteva indietro una nuvola di luminosi capelli rossi.
Sussurrò: — Raederle. Io la conosco. Rood, il figlio di Mathom, era a scuola con me. Eravamo ottimi amici. Lei era solita fargli visita là. Ma… non capisco.
— Alla sua nascita il Re fece voto di darla soltanto all’uomo che sarebbe stato capace di riprendere a Peven la corona di Aum.
— Lui ha fatto un… Che razza di stupidaggine da parte sua, promettere Raederle a qualunque individuo con abbastanza cervello da superare Peven in sottigliezza. Avrebbe potuto essere chiunque… — Tacque, mentre il suo volto si faceva un po’ pallido. — Sono stato io.
— Sì.
— Ma io non posso… Lei non potrebbe sposare un contadino. Mathom non darebbe mai il suo consenso.
— Mathom dà ascolto ai propri istinti. Vi consiglio di parlare con lui.
Morgon lo fissò. — Volete dire che dovrei attraversare il mare fino ad Anuin, alla corte del Re, entrare a sangue freddo nel suo immenso salone e parlare con lui?
— Siete pur entrato nella torre di Peven.
— Quella era un’altra cosa. Non c’erano nobili di tutte e tre le regioni di An a tenermi gli occhi addosso, allora.
— Morgon, Mathom ha legato a quel voto la sua persona e il suo stesso nome. E i nobili di An, che hanno perduto antenati, fratelli, e perfino figli in quella torre, non potranno che tributarvi onore per il vostro coraggio e la vostra intelligenza. L’unica questione che adesso dovete considerare è questa: volete prendere in sposa Raederle?
Lui si alzò di nuovo, tormentato dall’incertezza. Si passò le dita fra i capelli, mentre il vento che si levava dal mare glieli gettava indietro. — Raederle! — E in quel gesto una fila di piccole stelle, alta su un sopracciglio, lampeggiò vivida sulla pelle della sua fronte. Rivide il volto di lei che da lontano si girava a guardarlo. — Raederle.
Vide la faccia dell’arpista farsi d’un tratto inespressiva, quasi che il vento gli avesse spazzato via dai lineamenti ogni emozione, ogni colore. L’incertezza scivolò via da lui come le ultime note di una canzone.