— Sì. Ma io conosco ogni uomo di questa fortezza; nessuno ha qualche motivo per cercare di ammazzare voi. E se ci andiamo con cautela, nessuno lo verrà mai a sapere. Non sarà necessario che prendiate la spada… se volete, potrete stare sulla porta ad aspettarmi. Dentro, voglio dire, perché… — Un angolo della sua bocca si contrasse nervosamente. — Ammetto che l’idea di entrare là da solo mi fa paura. Ma fra tutti quelli che conosco voi siete l’unico che potrebbe venire con me.
Il sorriso scomparve dagli occhi di Morgon; si alzò di scatto, a disagio. — No. Tu sbagli. Io non voglio venire con te. Mi hai pur sentito quando ho spiegato a Danan le mie ragioni.
Bere tacque qualche istante, cercando con lo sguardo quello di lui. — Vi ho sentito. Ma Morgon, questo è… è importante. Per favore! Non ci vorrà molto ad andare e tornare…
— Tornare com’è tornato Sol?
Bere si morse le labbra. — Quella è una storia di molto tempo fa.
— No. — Vide che il suo tocco secco aveva fatto apparire un lampo disperato negli occhi del ragazzo, e lo raddolcì. — Sii ragionevole. Ascolta: io sono stato sempre mezzo passo davanti alla morte fin da quando ho lasciato Hed. Quelli che hanno cercato di uccidermi sono dei cambiaforma; potrebbero esser stati alla stessa tavola di Danan anche stasera, insieme a te, sotto le spoglie di minatori o mercanti che conosci benissimo. Nulla esclude che siano già qui, in agguato, in attesa che io faccia proprio questa mossa: se reclamassi il possesso della spada di Yrth, e se tu ed io fossimo sorpresi da loro nella caverna, ci ucciderebbero. E io ho troppo rispetto per la mia intelligenza, e per la mia vita, per farmi intrappolare così stupidamente.
Bere scosse la testa, quasi per scuotere via le parole di Morgon. Fece ancora un passo verso di lui, e nell’ombra la sua faccia si contrasse supplichevole. — Non è giusto lasciarla là, non è giusto ignorarla. Appartiene a voi, è vostra di diritto, e se assomiglia in qualche modo all’arpa nessun nobile del reame ha mai avuto una spada più bella.
— Io detesto le spade.
— Non è la spada che conta — disse Bere, pazientemente. — È l’abilità artigianale. È l’arte che c’è dentro. La prenderò io, se voi non la volete.
— Bere…
— Non è giusto che io non possa neanche vederla. — Strinse i denti. — Quand’è così, andrò laggiù da solo.
Morgon fece un passo verso di lui e lo afferrò per le spalle. — Io non posso impedirtelo — disse sottovoce. — Però devo chiederti di aspettare almeno finché non me ne sia andato da Isig, perché quando ti troveranno morto in quella caverna non voglio vedere la faccia di Danan.
Bere chinò il capo; le sue spalle si aggobbirono nella stretta di Morgon, poi si scostò e andò all’uscita. — Credevo che voi avreste capito cosa significa dover far una cosa.
Il ragazzo scomparve verso le scale. Stancamente Morgon tornò verso il caminetto, aggiunse legna al fuoco e si gettò sul letto. Per oltre un’ora, con gli occhi fissi sulla fiamma e il peso delle fatiche di quei giorni che gli doleva nelle ossa, non riuscì a prender sonno. Infine la sua mente scivolò in una tenebra dove bizzarre immagini si formavano e scoppiavano come pigre bolle in un calderone.
Rivide le alte pareti del salone di Harte, che le torce screziavano di bagliori argentei, dorati, neri e metallici. Vide, nei segreti cunicoli della montagna, pietre preziose grezze, cristalli di fuoco e di ghiaccio, blu-notte e giallo-topazio, emergere dalle loro nicchie di roccia. Gallerie col soffitto a volta e interminabili passaggi s’intrecciavano in un labirinto d’ombra. Stalattiti la cui estremità superiore si perdeva nell’oscurità scendevano in forme solidificate dal tempo. Lui si fermò ad ascoltare la voce del silenzio. Muovendosi leggero ed etereo come l’aria seguì una scura corrente sotterranea, viscida quanto una lastra di vetro, che nascendo da fenditure segrete andava a ruscellare in un vastissimo lago senza confini, dove sottili esseri sconosciuti agli uomini vivevano in un mondo privo di colori. Alla foce di uno di quei fiumicelli si trovò in un locale di pietre candide come il latte e venate di azzurro. Tre scalini emergevano da una polla d’acqua verso una superficie piatta su cui stavano due sarcofagi, d’oro massiccio e coperti di gemme bianche, che scintillavano alla luce di una torcia. Una grande tristezza entrò in lui al pensiero della morte degli Isig: Sol e Grania, la moglie di Danan. Attraversò la polla e si avvicinò a una delle bare. Il coperchio si spalancò improvvisamente, spinto dall’interno. Una faccia evanescente e irriconoscibile, né di uomo né di donna, lo fissò e dalla bocca uscì il nome: Portatore di Stelle.
Bruscamente si trovò di nuovo nella sua camera, vestito di tutto punto, mentre una voce mormorante nei corridoi di Harte lo chiamava, sottile e insistente come il lamento di un bambino nella notte. Fece per uscire, rifletté un istante e si mise l’arpa a tracolla. In punta di piedi scese per le scale deserte della torre e attraversò il salone dove il fuoco si stava estinguendo. Senza esitazioni trovò le porte di pietra del passaggio segreto oltre il locale, che si apriva nel ventre della montagna e conduceva giù negli umidi e freddi cunicoli delle miniere. Orizzontandosi con istintiva naturalezza trovò le gallerie principali, le rampe e le scale dirette in fondo al pozzo dove i carrelli di minerali riposavano sulle rotaie, e giunto là staccò una torcia dalla parete. Al termine di una galleria una fenditura nella solida roccia luccicò davanti a lui; il richiamo che continuava a udire usciva da lì, ed egli lo seguì senza porsi domande. Più oltre la pavimentazione era irregolare, consunta e polverosa. Masse di roccia calcarea simili a teste deformi crescevano al suolo strato dopo strato, scivolose per l’incessante sgocciolio dell’acqua. Il soffitto brillò all’improvviso così basso che dovette chinarsi, e poi si sollevò a un’altezza incredibile, mentre le pareti si restringevano invece al punto che per procedere fu costretto a girarsi di traverso sollevando la torcia sulla testa. Il silenzio era una cosa solida come la roccia stessa; e nel sogno sentì, lieve e acre, l’odore della pietra e delle acque sotterranee senza vita.
Aveva smarrito il senso del tempo, e non esistevano né il freddo né la stanchezza; c’era soltanto il vago susseguirsi delle ombre, lo sconfinato irretirsi di passaggi che egli seguiva con ottusa sicurezza. Si addentrò nelle viscere profonde della montagna protendendo una torcia che non si consumava mai, che nessuna corrente d’aria faceva oscillare; ad un tratto, percorrendo uno stretto cornicione, ne vide il riflesso in una superficie liquida molto più in basso. Il sentiero in discesa tornò finalmente orizzontale e intorno a lui vi furono pareti di pietra lavorata, ricurve, che si univano in alto ad arco acuto. Erano massi squadrati a mano ma consunti, e spezzati come da qualche antichissimo terremoto. Dovette scavalcarne alcuni che s’erano staccati dal soffitto. Il tunnel terminò improvvisamente con una porta chiusa.
Per un po’ non fece che esaminarla, immobile come la sua ombra proiettata sul muro. Qualcuno pronunciò il suo nome; allungò una mano per aprire il battente. E in quell’istante, quasi che il contatto lo avesse riportato alla superficie del sogno, Morgon fu scosso da un tremito e si svegliò. E s’accorse d’essere di fronte alla porta della Caverna dei Perduti!
Quella vista gli fece sbattere storditamente le palpebre, ma ciò che la torcia illuminava era indubbiamente una grande porta di marmo verde, percorso da sottili venature nere. Poi, mentre il freddo che nel sogno non aveva avvertito gli penetrava sotto la tunichetta, comprese la realtà delle enormi masse di roccia che lo opprimevano, nel silenzio e nella tenebra, e con un grido strozzato fece un passo indietro. Con uno scatto si volse: la torcia vacillava, e intorno a lui c’era un buio così impenetrabile che la luce sembrava ritrarsene con spavento.