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Il fiato gli si mozzò in gola; corse avanti quasi alla cieca e urtò con un ginocchio in un macigno abbattuto, sbandando contro una parete umida e scivolosa. Il ricordo dei caotici labirinti di roccia che aveva percorso esplose nella sua mente; vacillò come ubriaco per il panico improvviso, col cuore che gli pulsava follemente e un gemito raggelato chiuso fra le corde vocali.

Poi udì ancora la voce del sogno, la voce che lo aveva guidato fuori dalla dimora di Danan e giù per le budella della montagna:

— Portatore di Stelle!

Proveniva da oltre la porta, ed era una voce strana, poiché malgrado la limpidezza non aveva un timbro definibile. Il suo suono lo spaventò ancor di più; come se avesse un terzo occhio vide la presenza del pericolo che stava al di là della porta, e seppe cosa avrebbe potuto costargli mettere le mani su una conoscenza proibita. Appoggiato con una spalla alla parete restò a fissarla a lungo, ogni tanto scosso da tremiti di freddo, cercando di pesare il pro e il contro di ogni sua eventuale decisione. Antica di millenni, mai sfiorata dalla pioggia e dal vento, la porta stava lì fin dalla sua ignota origine e rispondeva allo sguardo di lui solo col silenzio. Infine egli si decise a passare una mano su quella superficie marmorea. Quel tocco bastò per far spalancare il battente su un panorama di tenebra. Si mosse nell’interno, e muovendo la torcia a destra e a sinistra vide pareti di roccia scabra punteggiate di cristalli verdi e azzurrini. Poi qualcuno avanzò di fronte a lui nell’alone luminoso, ed egli si arrestò con un sussulto.

L’emozione gli impediva di respirare. Una mano esile e affusolata si alzò a sfiorargli la fronte, come avrebbe fatto Suth, quasi per convincersi della sua realtà. Con gli occhi fissi su quel volto finemente modellato Morgon riuscì ad ansimare: — Tu sei un bambino!

Gli occhi simili a stelle bianche, incastonati nei lineamenti pallidi, si sollevarono nei suoi. — Noi siamo i figli. — La voce era la stessa da lui udita, fanciullesca, chiara e sognante.

— I figli?

— Noi siamo tutti i figli. I figli dei Signori della Terra.

Morgon stava per fare un’altra domanda, ma non ne fu capace. Il panico che gli aveva stretto la gola se ne stava andando, e tuttavia lo stupore lo lasciava altrettanto incapace di pensare chiaramente. Ma quello che gli stava di fronte era senza dubbio un ragazzino. Allungò una mano a toccargli una spalla e lo sentì esile ma concreto.

— Siamo divenuti pietra nella pietra. La terra ci ha sottomessi.

Sollevò la torcia. Tutto intorno a lui molte figurette sottili, eteree e fanciullesche, stavano emergendo dall’oscurità, ed i loro sguardi erano curiosi, privi di timore, quasi che egli fosse qualcosa facente parte dei loro sogni. La luce gli rivelò volti pallidi e lisci come la pietra delle stalattiti.

— Quanto tempo… da quanto siete qui?

— Dal tempo della guerra.

— La guerra?

— Prima dell’Insediamento. Aspettavamo te. Tu ci hai risvegliati.

— Siete stati voi a svegliarmi. E non so cosa… no, non capisco.

— Tu ci hai risvegliati, e noi ti abbiamo chiamato. Tu hai le stelle. — L’esile mano gli sfiorò la fronte. — Tre per la vita, tre per il vento, e tre per… — D’un tratto il fanciullo sollevò l’altra mano, e Morgon vide che reggeva una spada. L’elsa stellata gli venne offerta. — Tre per la morte. Questo ci fu promesso.

Le dita di lui si chiusero intorno alla lama; nella bocca aveva un sapore così acido che anche le parole gli uscirono amare: — Chi vi ha fatto questa promessa?

— La terra. Il vento. La grande guerra ci ha distrutti. Così ci venne promesso un uomo di pace.

— Vedo. — La sua voce tremava. — Vedo. — Tacque, e poggiò un ginocchio a terra per portarsi alla stessa altezza del fanciullo. — Qual è il tuo nome?

Lui esitò a lungo, come se non riuscisse a rispondere. Il suo volto si contrasse. Poi quasi stupito esclamò: — Io ero… io ero Tirnon. Mio padre era Tir, Signore della Terra e del Vento.

— Io ero Ilona — intervenne una bambinetta. Si accostò a Morgon con fiducia, anch’essa pallidissima nella cornice di capelli candidi. — Mia madre era… mia madre era…

— Trist — disse un bambino dietro di lei. I suoi occhi fissavano Morgon come se avesse letto in lui il proprio nome. — Io ero Trist. Io potevo assumere ogni forma della terra, uccello, albero, fiore… io li conoscevo. Potevo anche prendere la forma-vesta.

— Io ero Elore — disse con impazienza una snella ragazzina. — Mia madre era Rena… ella poteva parlare ogni linguaggio della terra. Mi stava insegnando la lingua dei grilli.

— Io ero Kara…

I bambini gli si affollarono intorno, ignorando la vicinanza della torcia accesa, e il coro delle loro voci era ingenuo e sognante. Lui li lasciò parlare, fissando incredulo i loro volti senza vita; poi esclamò bruscamente, sovrastando quel diluvio di parole: — Cos’è accaduto? Perché voi siete quaggiù.

Nella caverna cadde il silenzio. Tirnon si fece avanti. — Loro ci distrussero.

— Loro chi?

— Quelli venuti dal mare. Edolen. Sec. Essi ci distrussero, affinché non potessimo più vivere sulla terra; noi non possiamo dominarla. Mio padre allora ci difese e ci fece venire qui, lontani dalla guerra. Qui trovammo l’estremo rifugio.

Morgon rifletté su quelle parole. Abbassò la torcia lentamente, e le ombre tornarono a chiudersi sui bambini che lo circondavano. — Capisco. Cosa posso fare per voi?

— Libera i venti.

— Sì. In che modo?

— Una stella chiamerà fuori dal silenzio il Signore dei Venti; una stella chiamerà dalla tenebra il Maestro delle Tenebre; una stella richiamerà dalla morte i figli dei Signori della Terra. Tu hai chiamato; essi hanno risposto.

— Chi è…

— La guerra non è finita, ma soltanto interrotta per radunare le forze. Tu porterai le stelle di fuoco e di ghiaccio al Termine dell’Era del Supremo…

— Ma noi non potremmo vivere senza il Supremo.

— Questo ci è stato promesso. Questo sarà. — Il fanciullo sembrava non udire la sua stessa voce, quasi che quelle parole uscissero da ricordi sepolti in lui millenni addietro. — Tu sei il Portatore di Stelle, e tu scioglierai dal loro ordine i…

Improvvisamente tacque. Morgon lo scrutò, perplesso. — Continua.

Tirnon abbassò la testa. Si afferrò a un polso di Morgon con dita gelide, e nella sua voce esplose una nota di angoscia: — No!

Morgon sollevò di nuovo la torcia. Al di là di quel cerchio di volti nivei, di snelle figure fanciullesche e immobili, un’ombra più alta scivolò fuori dal buio. La luce si riflesse su un viso aureolato da lunghi capelli neri: una donna, affascinante e bellissima, che fissandolo con strana calma gli sorrise.

Si alzò di scatto, mentre i bambini balzavano qua e là disperdendosi come foglie al vento. Tirnon era caduto in ginocchio abbassando la fronte sulle cosce nude, e Morgon poté vedere i contorni del suo corpo cominciare a dissolversi e rimescolarsi in una massa unica, quasi calcarea. Si volse e corse disperatamente fuori dalla caverna. Ma aveva appena oltrepassato la porta marmorea che vide venire verso di lui, nel lungo tunnel in discesa e alla luce di lampade azzurrine, un gruppo di individui dalle membra verdastre e mutevoli, i cui movimenti erano fluidi come le acque del mare.

Un attimo di cieco panico lo fece irrigidire, finché a stento s’accorse che sulla sua destra la roccia presentava una spaccatura alta un paio di metri. Con un’imprecazione scaraventò via la torcia, e la vide rimbalzare fin tra i piedi dei suoi inseguitori. Poi trovò alla cieca la fessura e vi si cacciò dentro ansimando, con le braccia protese nell’oscurità, sbattendo a ogni passo contro spigoli e pareti di roccia. Si allontanò più in fretta che poté, lungo un budello che faceva continue curve, scivolando, urtando le spalle e la faccia, annaspando avanti coi piedi a ogni passo. Dinnanzi a lui c’era una tenebra identica a quella in cui erano precipitati i suoi pensieri. Alle sue spalle non si scorgeva alcuna luce; l’ignoto più completo lo circondava. D’un tratto il timore lo costrinse a voltarsi, e tese gli orecchi: a parte l’ansito del suo respiro, attorno aveva soltanto l’immenso silenzio delle viscere dell’Isig. Continuò a procedere, e le sue dita si ferirono sul granito e sui nidi di cristalli; uno spigolo gli aprì sulla fronte un taglio da cui un rivolo caldo gli scese su entrambi gli occhi, e sbattendo le palpebre ebbe l’impressione di piangere sangue. E poi, senza preavviso, sotto i suoi piedi ci fu il vuoto: precipitò in basso, e il suo grido di spavento si spense in un gelido stagno d’acqua nera.