Выбрать главу

—  Cosa vorresti che facessi, Diaspro?

L’altro scrollò le spalle. — Evocare uno spirito dei morti, per quello che m’interessa!

—  Lo farò.

—  No, non lo farai. — Diaspro lo guardò fisso, mentre la rabbia prendeva improvvisamente il sopravvento sul disprezzo. — Non lo farai. Non ne sei capace. Ti vanti e ti vanti…

—  Per il mio nome, lo farò!

Per un momento, tutti restarono immoti.

Svincolatosi da Veccia che avrebbe voluto trattenerlo con la forza, Ged uscì dal cortile senza voltarsi indietro. Le luci incantate che danzavano nell’aria discesero spegnendosi. Diaspro esitò un attimo, poi seguì Ged. E gli altri si accodarono, in silenzio, incuriositi e spaventati.

Le pendici della collina di Roke salivano buie nell’oscurità della notte estiva, prima del levar della luna. La presenza di quella collina dove tanti prodigi erano stati compiuti aleggiava come un peso nell’aria intorno a loro. Quando giunsero sul pendio pensarono alla profondità delle sue radici, più profonde del mare: scendevano fino ai vecchi e ciechi fuochi segreti nel cuore del mondo. Si fermarono sul pendio orientale. Le stelle brillavano sopra l’erba nera, dietro di loro, sulla cresta della collina. Non spirava alito di vento.

Ged si staccò dagli altri di qualche passo, si voltò e disse con voce chiara: — Diaspro! Quale spirito devo chiamare?

—  Chiama chi vuoi. Nessuno ti ascolterà. — La voce di Diaspro tremava un po’, forse per la collera. Ged domandò sommessamente, con tono beffardo: — Hai paura?

Non ascoltò neppure la risposta di Diaspro, se pure lui rispose. Non si curava più di Diaspro. Ora che stavano sulla collina di Roke, l’odio e la rabbia erano svaniti, sostituiti da un’assoluta certezza. Non doveva invidiare nessuno. Sapeva che il suo potere, quella notte, su quel buio terreno incantato, era più grande di quanto fosse mai stato, e lo saturava al punto che lui tremava di una forza difficile da tenere a freno. Adesso sapeva che Diaspro era molto inferiore a lui, e forse era stato inviato solo per portarlo lì quella notte: non era un rivale, ma soltanto un servitore del suo destino. Sentiva sotto i piedi le radici della collina che sprofondavano nella tenebra, e sopra il capo vedeva gli aridi fuochi lontani delle stelle. E lui poteva comandare a tutte le cose: era al centro del mondo.

—  Non temere — disse sorridendo. — Chiamerò lo spirito di una donna. Non dovrai aver paura di una donna. Evocherò Elfarran, la bella dama delle Gesta di Enlad.

—  È morta mille anni fa, le sue ossa giacciono lontano sotto il mare di Éa, e forse non è mai esistita.

—  Gli anni e le distanze contano qualcosa, per i morti? I canti mentono? — ribatté Ged con la stessa soave ironia. Poi, dicendo «Osserva l’aria tra le mie mani», voltò le spalle agli altri e restò immobile.

Quindi, con un gran gesto lento, tese le braccia nel segno di benvenuto che apre un’invocazione. Cominciò a parlare.

Aveva letto le rune di quell’incantesimo di evocazione nel libro di Ogion, più di due anni prima, e non le aveva più rilette. Le aveva lette nell’oscurità, allora. E adesso, in quell’oscurità, era come se le rileggesse sulla pagina aperta davanti a lui nella notte. Ma ora comprendeva ciò che leggeva, pronunciando a voce alta una parola dopo l’altra, e capiva che l’incantesimo doveva essere intessuto col suono della voce e il movimento del corpo e delle mani.

Gli altri ragazzi stavano a guardare, senza parlare e senza muoversi ma tremando un po’ perché il grande incantesimo cominciava ad attuarsi. La voce di Ged era ancora sommessa ma mutata, con una profonda risonanza cantilenante, e le parole che pronunciava erano loro ignote. Poi tacque. All’improvviso il vento si levò ruggendo sull’erba. Ged si lasciò cadere in ginocchio e chiamò a voce alta. Poi si buttò in avanti, come per stringere la terra con le braccia protese, e quando si risollevò teneva qualcosa di oscuro tra le mani e le braccia, qualcosa di tanto pesante che lui tremò per lo sforzo di alzarsi in piedi. Il vento caldo gemeva tra l’erba nera e agitata sulla collina. Se anche le stelle brillavano, in quel momento, nessuno le vedeva.

Le parole dell’incantesimo sibilavano e mormoravano sulle labbra di Ged. Poi lui gridò, forte e chiaro: — Elfarran!

Gridò di nuovo il nome: — Elfarran!

E per la terza volta: — Elfarran!

La massa informe d’oscurità che aveva sollevato si scisse. Si schiuse, e un pallido fuso di luce brillò tra le sue braccia aperte, un ovale fioco che saliva dal suolo fino all’altezza delle sue mani levate. Nell’ovale di luce si mosse per un momento una forma umana: una donna alta che girava all’indietro la testa. Il suo volto era bellissimo, e sofferente, e pieno di paura.

Lo spirito brillò solo per un istante. Poi l’ovale tra le braccia di Ged divenne più fulgido. S’ingrandì e si diffuse: uno squarcio nell’oscurità della terra e della notte, una lacerazione aperta nel tessuto del mondo, che lasciava passare un fulgore terribile. E attraverso quella breccia luminosa e deforme uscì qualcosa che sembrava un grumo d’ombra nera, rapido e orrendo, che balzò contro il volto di Ged.

Indietreggiando e barcollando sotto il peso della cosa, Ged proruppe in un breve grido rauco. Il piccolo otak che osservava dalla spalla di Veccia, l’animaletto che non aveva voce, gettò a sua volta un grido e si lanciò, come per attaccare.

Ged cadde, lottando e contorcendosi, mentre lo squarcio luminoso nella tenebra del mondo si allargava ancora. I ragazzi fuggirono e Diaspro si chinò verso terra, riparandosi gli occhi da quella luce terribile. Soltanto Veccia accorse verso l’amico. Perciò lui solo vide il grumo d’ombra che stava aggrappato a Ged, dilaniandolo. Era come una bestia nera, grossa quanto un bambino, sebbene sembrasse ingrandire e rimpicciolire; e non aveva testa né muso, ma solo le quattro zampe unghiute con cui stringeva e lacerava. Veccia singultò per l’orrore, e tuttavia tese le mani per strappar via la cosa dal corpo di Ged. Ma prima di toccarla si sentì legato, incapace di muoversi.

Il fulgore insopportabile sbiadì, e lentamente gli orli lacerati del mondo si richiusero. Vicino a loro una voce stava parlando sommessamente come lo stormire di un albero o il canto di una fontana.

La luce delle stelle riprese a brillare, e l’erba della collina s’imbiancò nella luce della luna che stava spuntando. La notte era risanata. L’equilibrio tra luce e tenebra era ristabilito. La bestia-ombra era scomparsa. Ged giaceva riverso, con le braccia protese come se compissero ancora l’ampio gesto di benvenuto e d’invocazione. Il suo volto era annerito dal sangue, e c’erano grandi macchie scure sulla sua camicia. Il piccolo otak stava accovacciato accanto alla sua spalla, tremante. E sopra di lui stava ritto un vecchio, avvolto in un mantello che scintillava pallido nel chiaro di luna: l’arcimago Nemmerle.

La punta del bastone di Nemmerle era librata argentea sul petto di Ged. Lo toccò una volta sul cuore, delicatamente, e una volta sulle labbra, mentre Nemmerle mormorava. Ged si mosse e le sue labbra si schiusero ansimanti. Poi il vecchio arcimago alzò il bastone e lo posò al suolo, appoggiandovisi pesantemente, a testa china, come se avesse a malapena la forza di reggersi.

Veccia si ritrovò libero di muoversi. Si guardò intorno e vide che altri erano già lì, il maestro evocatore e il maestro delle metamorfosi. Un atto di grande magia non si compie senza che tali uomini se ne accorgano, e loro accorrevano molto rapidamente quando il bisogno chiamava, sebbene nessuno fosse stato pronto come l’arcimago. Ora mandarono a chiedere aiuti, e alcuni andarono con l’arcimago mentre altri, tra cui Veccia, portavano Ged nelle stanze del maestro erborista.