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Per tutta la notte l’evocatore restò a vigilare sulla collina di Roke. Nulla si muoveva sulle pendici dov’era stata dilaniata la struttura del mondo. Nessuna ombra si mosse strisciando nel chiaro di luna per cercare lo squarcio attraverso il quale avrebbe potuto far ritorno al suo regno. Era fuggita da Nemmerle e dalle possenti muraglie d’incantesimo che circondano e proteggono l’isola di Roke, ma ormai era nel mondo. E nel mondo, chissà dove, si nascondeva. Se Ged fosse morto quella notte, l’ombra avrebbe potuto cercare la porta da lui aperta e seguirlo nel regno della morte, o ritornare nel luogo da cui era venuta: per questo l’evocatore attendeva sulla collina di Roke. Ma Ged visse.

L’avevano adagiato sul letto nella camera delle guarigioni, e il maestro erborista gli curava le ferite al volto, alla gola e alla spalla. Erano profonde, irregolari e maligne. Il nero sangue non si coagulava, e continuava a sgorgare nonostante gli incantesimi e le foglie di perriot avvolte nelle ragnatele che venivano usate per arrestarlo. Ged giaceva cieco e muto nella febbre, come un ceppo nel fuoco lento, e non esistevano sortilegi che potessero raffreddare ciò che lo bruciava.

Non molto lontano, nel cortile scoperto dove zampillava la fontana, anche l’arcimago giaceva immoto ma freddo, freddissimo: solo i suoi occhi erano vivi, e guardavano cadere l’acqua rischiarata dalla luna e le fronde che stormivano. Coloro che gli stavano intorno non recitavano incantesimi e non operavano sortilegi per guarirlo. Parlavano tra loro sottovoce, di tanto in tanto, e poi si voltavano di nuovo a guardare il loro signore. Lui giaceva immobile, e la luce della luna dava un candore d’avorio al naso aquilino e all’alta fronte e ai capelli canuti. Per frenare l’incantesimo incontrollato e allontanare l’ombra da Ged, Nemmerle aveva esaurito tutto il proprio potere e insieme tutta la forza fisica. Stava morendo. Ma la morte di un gran mago, che per molte volte ha percorso in vita le aride e ripide pendici del regno della morte, è una cosa strana: perché il morente non se ne va alla cieca bensì con sicurezza, conoscendo la strada. Quando Nemmerle levò lo sguardo tra le fronde dell’albero, coloro che l’attorniavano non compresero se guardava le stelle dell’estate svanire allo spuntar del giorno o le altre stelle che non tramontano mai sulle colline che non vedono mai l’aurora.

Il corvo di Osskil che era il suo animale da compagnia da trent’anni era sparito. Nessuno aveva visto dove fosse andato. — Lo precede in volo — disse il maestro degli schemi mentre stavano vegliando.

Venne il giorno, caldo e limpido. Sulla Grande Casa e le vie di Thwil era calato un grande silenzio. Nessuno alzò la voce fino a quando, verso mezzogiorno, campane di ferro parlarono nella torre del Cantore, rintoccando aspramente.

Il giorno dopo i nove maestri di Roke si radunarono in un certo punto sotto gli scuri alberi del Bosco Immanente. Si circondarono di nove muri di silenzio, perché nessuna persona o nessun potere parlasse loro o li ascoltasse mentre sceglievano tra tutti i maghi di Earthsea colui che sarebbe diventato il nuovo arcimago. Fu prescelto Gensher di Way. Subito una nave venne inviata attraverso il mare Interno all’isola di Way, per portare l’arcimago a Roke. Il maestro del vento stava a poppa, suscitando il vento magico che riempì la vela; e la nave partì rapidamente e scomparve.

Ged non sapeva niente di tutto questo. Per quattro settimane di quell’estate afosa giacque cieco e sordo e muto, sebbene talvolta gemesse e gridasse come un animale. Infine, quando le pazienti arti del maestro erborista operarono la loro funzione, le ferite cominciarono a rimarginarsi e la febbre l’abbandonò. A poco a poco sembrò che riacquistasse l’udito, anche se non parlava mai. Un sereno giorno d’autunno il maestro erborista aprì le imposte della stanza in cui giaceva Ged. Dopo la tenebra di quella notte sulla collina di Roke, Ged aveva conosciuto soltanto l’oscurità: ora rivide la luce del giorno e il sole che splendeva. Si nascose la faccia sfregiata tra le mani e pianse.

Tuttavia, quando venne l’inverno, riusciva a parlare solo balbettando, e il maestro erborista lo tenne nelle stanze della guarigione, cercando di condurre gradualmente il suo corpo e la sua mente al recupero delle forze. Era l’inizio della primavera quando finalmente il maestro lo lasciò andare, inviandolo per prima cosa a promettere devozione all’arcimago Gensher. Ged non aveva potuto compiere tale dovere insieme a tutti gli altri della scuola, quando Gensher era giunto a Roke.

Nessuno dei suoi compagni era stato autorizzato a fargli visita durante i primi mesi della malattia; e ora, mentre passava, alcuni si chiedevano: — Chi è, quello? — Un tempo era agile e leggero e forte: e adesso, claudicante per la sofferenza, procedeva esitante e non alzava il volto, che nella metà sinistra era bianco di cicatrici. Evitò coloro che lo conoscevano e coloro che non lo conoscevano, e si avviò direttamente al cortile della fontana. Là dove una volta aveva atteso Nemmerle, Gensher lo stava aspettando.

Come il vecchio arcimago, anche il nuovo era ammantato di bianco; ma come quasi tutti gli abitanti di Way e dello stretto Orientale, Gensher aveva la pelle nera, e i suoi occhi erano neri sotto le folte sopracciglia.

Ged s’inginocchiò e gli promise devozione e ubbidienza. Gensher rimase in silenzio per qualche istante.

—  So ciò che hai fatto — disse infine, — ma non ciò che sei. Non posso accettare la tua devozione.

Ged si alzò, e si appoggiò con una mano al tronco del giovane albero accanto alla fontana per sostenersi. Faticava ancora moltissimo a trovare le parole. — Devo lasciare Roke, mio signore?

—  Vuoi lasciare Roke?

—  No.

—  Cosa vuoi?

—  Restare. Imparare. Annullare… il male…

—  Neppure Nemmerle ha potuto farlo… No, non ti lascerei andar via da Roke. Nulla ti protegge, qui, tranne il potere dei maestri e le difese poste su quest’isola che tengono lontane le creature del male. Se tu te ne andassi ora, la cosa che hai scatenato ti troverebbe subito ed entrerebbe in te e s’impossesserebbe di te. Non saresti più un uomo ma un gebbeth, una marionetta che compirebbe la volontà dell’ombra maligna da te chiamata alla luce del sole. Devi restare qui fino a quando acquisterai forza e saggezza sufficienti per difendertene… se mai ci riuscirai. Anche ora ti attende. Ti attende certamente. L’hai rivista, dopo quella notte?

—  Nei sogni, mio signore. — Dopo un po’, Ged proseguì, parlando con fatica e vergogna: — Nobile Gensher, io non so cosa fosse… ciò che è uscito dall’incantesimo e mi ha assalito…

—  Neppure io lo so. Non ha nome. Tu hai un grande potere innato, e l’hai usato malamente, per operare un incantesimo che non potevi dominare, non sapendo come quell’incantesimo influisca sull’equilibrio della luce e della tenebra, della vita e della morte, del bene e del male. E ti sei lasciato indurre a questo dall’orgoglio e dall’odio. Ti stupisci che il risultato sia stato la rovina? Tu hai evocato uno spirito dei morti, ma con lui è venuto uno dei Poteri della non-vita. È venuto, senza che tu lo chiamassi, da un luogo dove non ci sono nomi. È maligno, e vuole compiere il male per tuo tramite. Il potere con cui l’hai chiamato gli dà potere su di te: siete collegati. È l’ombra della tua arroganza, l’ombra della tua ignoranza, l’ombra che tu getti. Un’ombra ha un nome?

Ged si sentiva in preda alle vertigini. Infine disse: — Sarebbe stato meglio che fossi morto.

—  Chi sei tu per giudicarlo, tu, l’uomo per cui Nemmerle ha dato la vita?… Qui sei al sicuro. Vivrai qui, e continuerai la tua preparazione. Mi dicono che sei intelligente. Continua il tuo lavoro. Fallo bene. È tutto ciò che puoi fare.

Così concluse Gensher; e all’improvviso sparì, com’è consuetudine dei maghi. La fontana zampillava nel sole, e per un po’ Ged la guardò e ne ascoltò la voce, pensando a Nemmerle. Una volta, in quel cortile, aveva avuto la sensazione di essere lui stesso una parola pronunciata dalla luce del sole. Adesso aveva parlato anche la tenebra: una parola che non poteva essere richiamata.