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Lasciò il cortile e tornò nella sua vecchia stanza nella torre meridionale, che avevano lasciato vuota per lui. Rimase là, solo. Quando il gong chiamò a cena, andò; ma non parlò quasi con gli altri ragazzi alla lunga tavola, e non alzò la faccia verso di loro, neppure verso quelli che lo salutavano con maggior gentilezza. Perciò, dopo un giorno o due, tutti lo lasciarono in pace. Essere lasciato in pace era ciò che voleva, perché temeva il male che poteva fare o dire involontariamente.

Non c’erano né Veccia né Diaspro, e Ged non chiese di loro. Adesso i ragazzi che lui aveva guidato e sui quali aveva signoreggiato erano tutti più avanti di lui, a causa dei mesi che aveva perso; e durante la primavera e l’estate studiò insieme a ragazzi più giovani di lui. E non brillava in mezzo a loro, perché le parole di qualunque incantesimo, perfino il più semplice sortilegio d’illusione, gli uscivano a fatica dalle labbra, e le sue mani esitavano in ogni compito.

In autunno doveva ritornare alla Torre Isolata per studiare col maestro dei nomi. Il compito che un tempo aveva temuto, ora lo allettava, perché desiderava il silenzio e l’apprendimento in cui non si operavano incantesimi e in cui il potere che lui sapeva ancora di possedere non sarebbe stato chiamato ad agire.

La notte prima della sua partenza per la torre, un visitatore entrò nella sua stanza: indossava un mantello da viaggio marrone e portava un bastone di quercia col puntale di ferro. Ged si alzò, vedendo il bastone da mago.

—  Sparviero…

Al suono della voce, Ged levò gli occhi: era Veccia, solido e squadrato come sempre; la faccia nera e camusa era più vecchia, ma il sorriso era immutato. Sulla sua spalla stava rannicchiata una bestiola screziata, con gli occhi vivaci.

—  È rimasto con me durante la tua malattia, e adesso mi duole separarmene. E ancor più mi dispiace separarmi da te. Ma sto per tornare a casa. Qui, hoeg! Va’ dal tuo vero padrone! — Veccia accarezzò l’otak e lo posò sul pavimento. La bestiola andò a sedersi sul pagliericcio di Ged e cominciò a forbirsi il pelo con la linguetta bruna e secca simile a una fogliolina. Veccia rise, ma Ged non riuscì neppure a sorridere. Si chinò per nascondere la faccia, accarezzando l’otak.

—  Credevo che non saresti venuto, da me — disse.

Non aveva pronunciato queste parole come un rimprovero, ma Veccia replicò: — Non ho potuto venire. Me l’aveva proibito il maestro erborista; e dall’inverno sono stato con lui nel bosco, isolato anch’io. Non ero libero, fino a quando mi sono guadagnato il bastone. Ascolta: quando anche tu sarai libero, vieni allo stretto Orientale. Ti aspetterò. Là ci sono piccole cittadine gaie, e i maghi sono accolti bene.

—  Libero… — mormorò Ged, e si sforzò un poco, cercando di sorridere.

Veccia lo guardò, non proprio come aveva fatto un tempo: con lo stesso affetto, ma forse con più magia. Disse gentilmente: — Non resterai legato per sempre a Roke.

—  Ecco… Ho pensato che forse potrò andare a lavorare col maestro nella torre, diventare uno di coloro che cercano i nomi perduti nei libri e nelle stelle, e così… così non farò altro male, anche se non farò molto bene…

—  Forse — disse Veccia. — Non sono un veggente, ma vedo davanti a te non già istanze e libri bensì mari lontani, e il fuoco dei draghi, e le torri delle città, e tutte le cose che vede un falco quando vola alto e lontano.

—  E dietro di me… Cosa vedi, dietro di me? — chiese Ged, e mentre parlava si alzò, così che la luce incantata accesa sopra di loro mandò la sua ombra contro la parete e il pavimento. Poi girò la faccia e disse balbettando: — Ma dimmi dove andrai, cosa farai.

—  Andrò a casa, a rivedere i miei fratelli e la sorella di cui mi hai sentito parlare. L’ho lasciata bambina, e presto riceverà il nome: è strano, pensarci! E così mi troverò un lavoro come mago, tra le piccole isole. Oh, vorrei restare a parlare con te, ma non posso: la mia nave parte stanotte e la marea sta già cambiando. Sparviero, se mai la tua strada ti porterà a Oriente, vieni da me. E se mai avrai bisogno di me, mandami a chiamare, chiamami col mio nome: Estarriol.

A quelle parole Ged alzò la faccia sfigurata e incontrò gli occhi dell’amico.

—  Estarriol — disse, — il mio nome è Ged.

Poi si dissero addio in silenzio, e Veccia si girò e si avviò per il corridoio di pietra, e lasciò Roke.

Ged restò immobile per lunghi istanti, come chi ha ricevuto una grande notizia e deve schiudere lo spirito ad accoglierla. Era un gran dono, quello che gli aveva fatto Veccia: la conoscenza del suo vero nome.

Nessuno conosce il vero nome di un uomo, tranne lui stesso e colui che gliel’ha dato. Alla fine può decidere di rivelarlo al fratello, o alla moglie, o a un amico: eppure neanche costoro l’useranno mai quando una terza persona potrebbe udirlo. Di fronte agli altri, come tutti, lo chiameranno col suo nome d’uso, il suo nomignolo: come Sparviero, e Veccia, e Ogion che significa «pigna d’abete». Se gli uomini comuni nascondono il loro vero nome a tutti, eccettuati quei pochi che amano e di cui si fidano assolutamente, tanto più devono farlo i maghi, poiché sono più pericolosi ed esposti a maggiori pericoli. Chi conosce il nome di un uomo ha in custodia la sua vita. Perciò, a Ged che aveva perso la fede in se stesso, Veccia aveva fatto il dono che solo un amico può fare, la prova della fiducia più incrollabile.

Ged si sedette sul pagliericcio e lasciò spegnere il globo di luce incantata, che si dissolse irradiando una lieve zaffata di gas di palude. Accarezzò l’otak, che si sdraiò comodamente e si addormentò sul suo ginocchio come se non avesse mai fatto altro. La Grande Casa era immersa nel silenzio. Ged pensò che era la vigilia dell’anniversario del suo passaggio, il giorno in cui Ogion gli aveva dato il nome. Erano trascorsi quattro anni. Ricordò il freddo della sorgente montana che aveva attraversato nudo e senza nome. Cominciò a pensare ad altre polle luminose del fiume Ar, dove un tempo aveva l’abitudine di andare a nuotare; e al villaggio di Dieci Ontani sotto le grandi foreste della montagna; alle ombre del mattino sulla via polverosa del villaggio, al fuoco che balzava sotto gli sbuffi del mantice nella fucina in un pomeriggio d’inverno, alla capanna buia e fragrante della strega, dove l’aria era appesantita dai fumi e dai sortilegi. Da molto tempo non pensava a queste cose. Ora tornavano a lui, nella notte del suo diciassettesimo compleanno. Tutti gli anni e i luoghi della sua vita breve e infranta gli tornarono alla mente e si ricomposero. Finalmente seppe di nuovo, dopo quel lungo e amaro tempo perduto, chi era e dov’era.

Ma dove sarebbe andato negli anni a venire, questo non lo vedeva; e aveva paura di vederlo.

La mattina dopo partì per attraversare l’isola, con l’otak sulla spalla come un tempo. Questa volta impiegò tre giorni, non due, per giungere alla Torre Isolata, ed era stanco morto quando arrivò in vista della torre sopra i mari schiumanti e sibilanti del promontorio settentrionale. All’interno c’era buio e freddo, come ricordava, e Kurremkarmerruk sedeva sul suo alto seggio, scrivendo elenchi di nomi. Diede un’occhiata a Ged e gli disse, senza porgergli il benvenuto: — Va’ a letto: chi è stanco è stupido. Domani potrai aprire il Libro delle Imprese dei Creatori e impararne i nomi.

Al termine dell’inverno, Ged tornò alla Grande Casa. Venne proclamato incantatore, e questa volta l’arcimago Gensher accettò la sua promessa di devozione. Poi studiò le arti superiori e gli incantamenti, passando dalle arti dell’illusione alle opere della vera magia e imparando ciò che doveva sapere per guadagnarsi il bastone di mago. La difficoltà nel pronunciare gli incantesimi si attenuò col passare dei mesi, e l’abilità ritornò nelle sue mani; eppure non fu più rapido nell’apprendere com’era stato un tempo, poiché la paura gli aveva insegnato una dura lezione. Tuttavia non ci furono portenti nefasti o incontri maligni, neppure quando operava i Grandi Incantesimi della creazione e della forma, che sono pericolosissimi. Talvolta si chiedeva se l’ombra da lui scatenata si era indebolita, o se era fuggita dal mondo, perché non appariva più nei suoi sogni. Ma in cuor suo sapeva che quella speranza era una follia.