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I quaranta remi portarono la nave per centocinquanta miglia di mare ventoso prima del tramonto del secondo giorno dopo la partenza da Serd. Entrarono nel porto a Orrimy, sulla costa orientale della grande terra di Hosk, perché le galee mercantili del mare Interno non si allontanano dalle coste e appena possono si fermano in un porto per passare la notte. Ged scese a terra, perché era ancora giorno, e vagò per le ripide vie della città portuale, cupo e senza meta.

Orrimy è una città vecchia, costruita massicciamente di pietra e mattoni, cinta da mura per difendersi dai signorotti fuorilegge dell’entroterra dell’isola di Hosk; i magazzini sui moli sono come fortini, e le case dei mercanti hanno torri e bastioni. Eppure a Ged, che si aggirava per le vie, quelle dimore ponderose sembravano veli dietro i quali stava un’oscurità vuota; e coloro che incontrava, intenti alle loro faccende, non gli sembravano uomini veri ma mute ombre di uomini. Quando tramontò il sole ritornò ai moli, e anche lì, nella gran luce rossa e nel vento della fine della giornata, mare e terra gli parvero indistinti e silenziosi.

—  Dove sei diretto, nobile mago?

Così gli disse una voce alle sue spalle, all’improvviso. Ged si voltò e vide un uomo vestito di grigio: portava un pesante bastone di legno che non era il bastone di un mago. La faccia dello sconosciuto era nascosta dal cappuccio, ma Ged sentì quegli occhi invisibili cercare i suoi. Arretrando, levò il suo bastone di tasso tra sé e lo sconosciuto.

L’uomo chiese, in tono blando: — Cosa temi?

—  Ciò che mi segue.

—  Davvero? Ma io non sono la tua ombra.

Ged tacque. Comprendeva che in verità quell’uomo, qualunque cosa fosse, non era ciò che lui temeva: non era un’ombra né uno spettro né un gebbeth. Nel silenzio e nella semioscurità che erano scesi sul mondo, aveva una voce e una certa solidità. Ributtò indietro il cappuccio. Aveva la testa calva, stranamente grinzosa, e un volto tutto rughe. Sebbene la voce non l’avesse indicato, sembrava vecchio.

—  Io non ti conosco — disse. — Tuttavia credo che forse non ci siamo incontrati per caso. Una volta ho sentito parlare di un giovane sfregiato, che conquistò tramite la tenebra un grande dominio, giungendo fino a un trono di re. Non so se è la tua storia. Ma ti dirò questo: va’ alla corte del Terrenon, se hai bisogno di una spada per combattere le ombre. Un bastone di legno di tasso non ti servirà.

La speranza e la diffidenza lottavano nella mente di Ged. Un mago impara presto che ben pochi dei suoi incontri sono casuali, per il bene o per il male che siano. — In quale terra è la corte del Terrenon?

—  A Osskil.

Al suono di quel nome Ged vide per un istante, nel ricordo, un corvo nero sull’erba verde, che lo guardava di sottecchi con un occhio simile a una pietra levigata, e parlava: ma aveva dimenticato quelle parole.

—  Quella terra ha una fama piuttosto tenebrosa — disse, guardando sempre l’uomo in grigio e cercando di giudicarlo. Aveva qualcosa che faceva pensare a un incantatore, addirittura a un mago: eppure, sebbene gli parlasse arditamente, aveva una strana aria depressa, quasi fosse un malato o un prigioniero o uno schiavo.

—  Tu vieni da Roke — replicò quello. — I maghi di Roke attribuiscono una fama tenebrosa a tutte le magie che non sono le loro.

—  Che uomo sei?

—  Un viaggiatore, un agente commerciale di Osskiclass="underline" sono qui per affari — disse l’uomo in grigio. Poiché Ged non gli chiese altro, gli augurò la buonanotte e proseguì per la stretta viuzza a gradini che portava lontano dai moli.

Ged si voltò, indeciso se tener conto o no di quel segno, e guardò a nord. Il chiarore rosso stava svanendo rapidamente dalle colline e dal ventoso mare. Venne il grigio crepuscolo, e subito dopo la notte.

Ged, con improvvisa decisione, si diresse lungo la banchina, verso un pescatore che stava ripiegando le reti, e gli chiese: — Sai se in porto c’è una nave diretta a nord… a Semel o alle Enlades?

—  Quella lunga nave laggiù è di Osskiclass="underline" forse si fermerà alle Enlades.

Sempre in fretta, Ged proseguì verso la nave indicata dal pescatore, una lunga nave di sessanta remi, sottile come un serpente, con l’alta prora ricurva e scolpita e intarsiata con dischi di guscio di loto, i portelli delle cubie dei remi dipinti di rosso, e la runa Sifl tracciata in nero su ciascuno. Aveva l’aria cupa ma sembrava veloce, ed era in perfetto ordine, con l’equipaggio a bordo. Ged cercò il comandante e gli chiese di portarlo a Osskil.

—  Puoi pagare?

—  Ho qualche abilità con i venti.

—  So farlo anch’io. Non hai niente da darmi? Denaro?

A Torning Bassa i maggiorenti avevano pagato Ged come potevano, con i pezzi d’avorio usati dai mercanti nell’arcipelago: lui aveva accettato solo dieci pezzi, sebbene gli isolani volessero dargliene di più. Li offrì all’osskiliano, ma quello scosse il capo. — Noi non usiamo questi gingilli. Se non hai niente per pagare, io non ho posto per te a bordo.

—  Hai bisogno di braccia? Io ho remato su una galea.

—  Sì, ci mancano due uomini. Cercati il banco — disse il comandante, e non badò più a lui.

E così, dopo aver riposto il bastone e il sacco di libri sotto il banco dei rematori, Ged divenne, per dieci freddi giorni d’inverno, rematore di quella nave nordica. Lasciarono Orrimy allo spuntar dell’alba, e quel giorno Ged pensò che non ce l’avrebbe fatta. Il suo braccio sinistro era menomato dalle vecchie ferite alla spalla, e tutto il remare nei canali intorno a Torning Bassa non l’aveva preparato all’implacabile ritmo del lungo remo della galea, scandito dal rullo del tamburo. Ogni turno ai remi durava due o tre ore, e poi altri uomini davano il cambio; ma il tempo del riposo sembrava sufficiente solo a far sì che i muscoli di Ged s’irrigidissero, e poi doveva tornare ai remi. E il secondo giorno fu anche peggio; ma poi si abituò, e se la cavò discretamente.

Tra gli uomini dell’equipaggio non c’era il cameratismo che Ged aveva trovato a bordo dell’Ombra la prima volta che si era recato a Roke. I marinai delle navi di Andrad e di Gont sono soci e lavorano insieme per il profitto comune, mentre i mercanti di Osskil usano schiavi e servi oppure ingaggiano rematori, pagandoli con piccole monete d’oro. L’oro è molto importante, a Osskil. Ma non è fonte di buona amicizia su quell’isola, come non lo è fra i draghi, che a loro volta lo tengono in gran conto. Poiché la metà dell’equipaggio era composta da servi costretti a lavorare, gli ufficiali della nave si comportavano da schiavisti. Non frustavano mai un rematore che lavorava per la paga o per il passaggio, ma non è possibile che ci sia molta amicizia in un equipaggio dove alcuni vengono frustati e altri no. I compagni di Ged parlavano poco tra loro, e con lui parlavano ancor meno. Erano quasi tutti di Osskil e non usavano la lingua hardese dell’arcipelago ma un loro dialetto, ed erano uomini cupi, pallidi, con neri baffi spioventi e capelli lisci. Kelub, il rosso: così chiamavano Ged. Sebbene sapessero che era un mago, non gli mostravano il minimo riguardo ma piuttosto una specie di guardingo disprezzo. E lui non aveva voglia di cercare di farseli amici. Anche lì, sul banco, preso dal poderoso ritmo delle remate, in mezzo ad altri rematori di una nave che correva sui grigi mari vuoti, si sentiva esposto, indifeso. Quando entravano in porti sconosciuti, al cader della notte, e lui si avviluppava nel mantello per dormire, sebbene fosse stanchissimo sognava, si svegliava e riprendeva a sognare: sogni terribili, che al risveglio non riusciva a ricordare benché sembrassero aleggiare intorno alla nave e agli uomini della nave; e perciò diffidava di tutti.