Gli osskiliani liberi portavano tutti un lungo coltello al fianco; e un giorno, mentre gli uomini del suo turno consumavano il pasto del meriggio, uno domandò a Ged: — Sei uno schiavo o un violatore di giuramenti, Kelub?
— Né l’uno né l’altro.
— Perché non porti il coltello, allora? Hai paura di batterti? — chiese beffardo l’uomo, che si chiamava Skiorh.
— No.
— È il tuo cagnolino, a battersi per te?
— Otak — disse un altro che stava ascoltando. — Non è un cane, è un otak. — E disse qualcosa in osskiliano che indusse Skiorh a voltarsi dall’altra parte con una smorfia. Mentre si girava, Ged scorse un mutamento nel suo volto, uno sfocarsi dei lineamenti, come se per un attimo qualcosa l’avesse mutato usandolo per guardare Ged in tralice con i suoi occhi. Tuttavia dopo un momento Ged lo vide in faccia, e gli parve il solito: perciò si disse che ciò che aveva visto era la sua paura, il suo terrore riflesso negli occhi dell’altro. Ma quella notte, mentre erano in porto a Esen, sognò, e sognò Skiorh. Dopo quella notte cercò di evitare quell’uomo, e sembrava che anche Skiorh si tenesse lontano da lui. E non si parlarono più.
Le montagne innevate di Havnor scomparvero dietro di loro, a sud, confuse tra le nebbie del primo inverno. Superarono l’imboccatura del mare di Éa, dove tanto tempo prima era annegata Elfarran, e poi passarono oltre le Enlades. Rimasero per due giorni in porto a Berila, la Città d’Avorio, bianca sulla sua baia, nella parte occidentale della mitica Enlad. In tutti i porti in cui giungevano, gli uomini dell’equipaggio venivano tenuti a bordo della nave e non potevano mettere piede a terra. Poi, mentre si levava il sole rosseggiante, si avventurarono nel mare di Osskil, nei venti di nord-est che spirano indisturbati dalla desolazione senza isole dello stretto Settentrionale. Portarono il loro carico attraverso quel mare agitato, e il secondo giorno dopo la partenza da Berila entrarono in porto a Neshum, la città commerciale della parte orientale di Osskil.
Ged vide una costa bassa sferzata dal vento piovoso, una città grigia accovacciata dietro i lunghi frangiflutti che formavano il porto, e dietro la città colline spoglie sotto un cielo gravido di neve. Si erano spinti lontano dal sole del mare Interno.
I facchini della corporazione marittima di Neshum vennero a bordo per scaricare le merci (oro, argento, gioielli, sete finissime e arazzi meridionali, le cose preziose tesaurizzate dai signori di Osskil), e gli uomini liberi dell’equipaggio furono congedati. Ged ne fermò uno per chiedere indicazioni: fino a quel momento la diffidenza che provava per tutti loro l’aveva trattenuto dal dire dov’era diretto, ma adesso, appiedato e solo in una terra sconosciuta, doveva ben informarsi. L’uomo proseguì spazientito, dicendo che non lo sapeva; ma Skiorh, che aveva udito, disse: — La corte del Terrenon? Nelle brughiere di Keksment. Vado anch’io da quelle parti. Skiorh non era il compagno che Ged avrebbe scelto, ma poiché lui non conosceva né la lingua né la strada non poteva far altro. E non aveva molta importanza, pensò: non era stato lui a scegliere di venire lì. Era stato sospinto, e adesso veniva sospinto ancora. Si tirò il cappuccio sulla testa, prese il bastone e il sacco, e seguì l’osskiliano attraverso le vie della città e più oltre, tra le colline coperte di neve. Il piccolo otak non volle restargli sulla spalla e si nascose nella tasca della tunica di pelle di pecora, sotto il mantello, com’era sua abitudine quando faceva freddo. Le colline si stendevano a perdita d’occhio fra brughiere ondulate e squallide. Camminavano in silenzio, e il silenzio dell’inverno gravava su tutta quella terra.
— Molto lontano? — chiese Ged dopo che ebbero percorso alcune miglia senza vedere villaggi o fattorie da nessuna parte: pensava che non avevano viveri con loro. Skiorh girò la testa un momento, alzando il cappuccio, e disse: — Non lontano.
Era un volto brutto, pallido, volgare e crudele; ma Ged non temeva nessun uomo, sebbene potesse temere il luogo dove quell’uomo l’avrebbe guidato. Annuì, e proseguirono. La strada era solo una cicatrice attraverso la desolazione di neve e di arbusti spogli. Di tanto in tanto, altre piste l’attraversavano o se ne diramavano. Ora che il fumo dei comignoli di Neshum era nascosto dietro le colline, nella luce sempre più cupa del pomeriggio, non c’era traccia della direzione in cui dovevano andare o da cui erano venuti. Solo il vento continuava a spirare sempre dall’est. E dopo che ebbero camminato per diverse ore Ged ebbe l’impressione di scorgere, lontano sulle colline a nordovest, nella direzione in cui erano avviati, una vaga scalfittura contro il cielo, bianca, simile a un dente. Ma la luce della breve giornata si andava affievolendo, e al primo rialzo della strada non riuscì a distinguere più chiaramente di prima quella cosa, torre o albero o cos’altro fosse.
— È là che siamo diretti? — chiese, tendendo il braccio.
Skiorh non rispose ma continuò a camminare, avviluppato nel rozzo mantello col cappuccio a punta foderato di pelliccia. Ged procedeva al suo fianco, a grandi passi. Si erano spinti molto lontano, e lui era insonnolito per il ritmo dell’andatura e per la lunga stanchezza dei giorni e delle notti di fatica a bordo della nave. Cominciò ad avere la sensazione di camminare da sempre e di essere destinato a camminare per sempre accanto a quell’essere silenzioso, in una terra silenziosa e sempre più buia. La prudenza e la determinazione si erano offuscate in lui. Camminava come in un lungo, lunghissimo sogno, senza una meta.
L’otak si mosse, nella tasca, e una vaga paura si destò e si agitò nella mente di Ged. Si fece forza e parlò. — Stanno venendo l’oscurità e la neve. Dobbiamo andare ancora lontano?
Dopo un indugio, l’altro rispose senza voltarsi: — Non lontano.
E la sua voce non sembrava la voce di un uomo ma di una bestia, rauca e senza labbra, che si sforza di parlare.
Ged si fermò. Tutt’intorno a lui stavano le colline deserte nella tarda luce crepuscolare. Qualche fiocco di neve cadeva turbinando. — Skiorh! — disse, e l’altro si fermò e si voltò. Sotto il cappuccio a punta non c’era volto.
Prima che Ged potesse pronunciare un incantesimo o evocare il potere, il gebbeth parlò, dicendo con quella voce rauca: — Ged!
E allora il giovane non poté operare nessuna trasformazione: restò prigioniero nel suo vero essere, e dovette affrontare il gebbeth così indifeso. Non poteva invocare aiuto in quella terra sconosciuta, dove non conosceva nulla e nessuno che potesse rispondere al suo appello. Restò solo, e tra lui e il suo nemico c’era soltanto il bastone di legno di tasso stretto nella sua destra.
La cosa che aveva divorato la mente di Skiorh e si era impossessata della sua carne fece compiere un passo avanti al corpo, verso Ged, e le braccia si tesero brancolando per afferrarlo. Invaso dalla furia e dall’orrore, Ged avventò il bastone, in un arco sibilante, sul cappuccio che nascondeva la faccia d’ombra. Il cappuccio e il mantello si afflosciarono fin quasi al suolo, sotto quel colpo violento, come se dentro non ci fosse null’altro che vento; e poi, fremendo e svolazzando, si risollevarono. Il corpo di un gebbeth è stato svuotato della sua vera sostanza, ed è piuttosto un involucro o un vapore in forma d’uomo, una carne irreale che riveste la realtà dell’ombra. Sussultando e gonfiandosi come se fosse mossa dal vento, l’ombra spalancò le braccia e si scagliò su Ged, cercando di abbrancarlo come aveva fatto sulla collina di Roke: e se ci fosse riuscita avrebbe abbandonato l’involucro di Skiorh e sarebbe entrata in Ged, divorandolo dall’interno e impadronendosi di lui com’era suo desiderio. Ged avventò ancora il pesante bastone fumante, schiacciandola; ma quella ritornò, e lui colpì di nuovo, e poi lasciò cadere il bastone che sfolgorava e fumigava scottandogli la mano. Indietreggiò, e improvvisamente girò su se stesso e fuggì.
Corse, e il gebbeth lo inseguì a un passo di distanza, incapace di raggiungerlo ma senza lasciarsi mai distaccare. Ged non si voltò mai indietro. Corse, corse, in quell’immensa terra crepuscolare dove non c’erano nascondigli. Una volta il gebbeth, con quella rauca voce sibilante, lo chiamò ancora per nome: ma sebbene gli avesse sottratto in quel modo il suo potere di mago, non aveva dominio sull’energia del suo corpo e non poteva costringerlo a fermarsi. Ged corse.