Un’onda, avanzando gonfia dalla nebbia lacerata, l’afferrò e lo rotolò più e più volte e lo scagliò sulla sabbia come un fuscello.
E là giacque. Teneva ancora avinghiato con tutt’e due le mani il bastone di legno di tasso. Onde meno imponenti lo investirono, cercando di ritrascinarlo giù per il declivio sabbioso mentre defluivano, e la nebbia si schiudeva e gli si richiudeva sopra; e più tardi venne una pioggia mista a nevischio che batté su di lui.
Dopo lungo tempo, Ged si mosse. Si puntellò sulle mani e sulle ginocchia, e cominciò lentamente a risalire strisciando sulla spiaggia, lontano dalla battigia. Ormai era notte fonda; ma lui bisbigliò al bastone, e una piccola luce incantata circondò il legno. Guidandosi con quel chiarore, avanzò lottando, poco a poco, verso le dune. Era così intirizzito e indolenzito e ammaccato che trascinarsi sulla sabbia umida nell’oscurità sibilante e scrosciante fu la cosa più faticosa che mai avesse dovuto fare. E un paio di volte gli parve che il grande frastuono del mare e del vento si spegnessero e che la sabbia umida divenisse polvere sotto le sue mani, e sentì sul dorso lo sguardo immoto di stelle aliene: ma non alzò la testa e continuò a strisciare, e dopo un po’ udì il proprio respiro ansante e sentì di nuovo il vento rabbioso che gli sbatteva la pioggia sul volto.
Il movimento riportò finalmente un po’ di calore nelle sue membra; e quando fu salito tra le dune, dove le raffiche del vento piovoso erano meno violente, Ged riuscì ad alzarsi in piedi. Con una parola trasse dal bastone una luce più forte, perché il mondo era totalmente nero; poi, appoggiandosi al bastone, proseguì per circa mezzo miglio nell’entroterra, incespicando e soffermandosi. Poi, in cima a una duna, udì il mare, di nuovo rumoroso, non ancora alle sue spalle ma di fronte: le dune digradavano ancora in un’altra spiaggia. Non si trovava su un’isola ma su una secca, un mucchio di sabbia in mezzo all’oceano.
Era troppo esausto per disperarsi, ma si lasciò sfuggire una specie di singulto e rimase lì a lungo, stravolto, appoggiandosi al bastone. Poi, ostinatamente, si girò verso sinistra, per avere il vento alle spalle, e strascicando i piedi scese dalla duna, cercando una depressione tra l’erba marina incrostata di ghiaccio, per avere un po’ di riparo. Mentre teneva levato il bastone per poter scorgere ciò che gli stava davanti, intravide un vago baluginio al limitare del cerchio di luce incantata: una parete di legno bagnata di pioggia. Era una capanna o una baracca, piccola e pericolante come se l’avesse costruita un bambino. Ged bussò col bastone alla bassa porticina, ma quella restò chiusa. Ged la spinse ed entrò, piegandosi quasi in due per passare. Nell’interno, non poté stare eretto. Nel focolare ardevano rosse braci, e in quel fioco lucore Ged vide un uomo dai lunghi capelli canuti, rannicchiato per il terrore contro la parete di fronte, e un’altra persona, uomo o donna (non riusciva a vedere bene), che sbirciava da un mucchio di stracci o di pelli sul pavimento.
— Non vi farò nessun male — mormorò Ged.
Quelli non dissero nulla. Lui guardò prima l’uno e poi l’altro: avevano gli occhi vitrei per il terrore. Quando lui depose il bastone, la persona sotto il mucchio di stracci si nascose piagnucolando. Ged si tolse il mantello appesantito dall’acqua e dal ghiaccio, si spogliò completamente e si accoccolò accanto al focolare. — Datemi qualcosa in cui avvolgermi — disse. Era rauco, e quasi non riusciva a parlare perché gli battevano i denti e lunghi brividi lo squassavano. Anche se lo udirono, i due vecchi non risposero. Ged tese un braccio e prese dal mucchio un cencio, una pelle di capra ridotta a brandelli coperti di untume nero. La persona sotto il mucchio gemette di paura, ma Ged non le badò. Si massaggiò, asciugandosi, poi mormorò: — Avete legna? Attizza un po’ il fuoco, vecchio. Vengo da voi spinto dal bisogno, non intendo farvi nessun male.
Il vecchio non si mosse: lo fissava intontito dalla paura.
— Mi capisci? Non parli hardese? — Ged indugiò, poi aggiunse: — Kargad?
A quella parola il vecchio annuì, con un cenno secco, come una marionetta triste e decrepita. Ma poiché era l’unica parola che Ged conoscesse della lingua karg, il dialogo finì lì. Trovò la legna ammucchiata contro una parete, riattizzò lui stesso il fuoco, e poi, a gesti, chiese acqua, poiché l’acqua di mare che aveva inghiottito gli aveva dato la nausea e adesso era riarso dalla sete. Tremando, il vecchio indicò una grande conchiglia contenente acqua, e spinse verso il fuoco un’altra conchiglia dove stavano pezzi di pesce affumicato. E così, seduto a gambe incrociate accanto al fuoco, Ged bevve e mangiò un po’, e mentre cominciava a recuperare un po’ di forza e di lucidità si domandò dov’era. Neppure col vento magico poteva essersi spinto fino alle Terre di Kargad. Quell’isola doveva essere nello stretto, a oriente di Gont ma ancora a occidente di Karego-At. Gli sembrava strano che qualcuno abitasse in un luogo così piccolo e desolato, una semplice barena di sabbia: forse erano reietti, ma era troppo stanco per pensarci.
Continuò a rigirare il mantello, esponendolo al calore. L’argenteo pelo di pellawi si asciugò in fretta; e appena la lana del rivestimento fu almeno calda, se non asciutta, Ged vi si avviluppò e si sdraiò accanto al focolare. — Dormite, povera gente — disse ai suoi taciturni anfitrioni, e posò la testa sul pavimento di sabbia e si addormentò.
Trascorse tre notti su quell’isoletta senza nome, perché la prima mattina, quando si svegliò, aveva tutti i muscoli intormentiti ed era in preda alla febbre e alla nausea. Giacque come un pezzo di legno gettato a riva dal mare, accanto al fuoco, per tutto quel giorno e per tutta la notte. Il mattino successivo si destò ancora irrigidito e indolenzito, ma si riprese. Indossò di nuovo gli abiti incrostati di sale, perché non c’era abbastanza acqua dolce per lavarli, e uscì nel grigio mattino ventoso e guardò il luogo dove l’aveva spinto l’ombra con l’inganno.
Era una barena di pietra e di sabbia, larga al massimo un miglio e di poco più lunga, circondata da una frangia di scogli e di rocce. Non vi crescevano alberi né arbusti, e neppure una pianta, eccettuata l’erba marina. La capanna stava in una depressione tra le dune, e il vecchio e la vecchia vivevano lì soli, nella totale desolazione del mare deserto. La capanna era costruita precariamente di assi e di rami gettati a riva dalle onde. L’acqua potabile veniva da un piccolo pozzo salmastro accanto alla capanna; il loro cibo era costituito da pesci e molluschi, freschi o secchi, e da licheni. Le pelli sbrindellate nella capanna, e la piccola scorta di aghi e di ami d’osso, e i tendini usati per le lenze e per accendere il fuoco, non venivano dalle capre, come aveva pensato Ged in un primo momento, ma dalle foche maculate; e per la verità quello era uno dei luoghi dove le foche vanno d’estate ad allevare i piccoli. Ma non vi giunge mai nessun altro. I vecchi temevano Ged: non perché lo credessero uno spirito, e non perché era un mago, ma solo perché era un uomo. Avevano dimenticato che c’erano altri, al mondo.