Allora lo prese un certo timore, quando cominciò a chiedersi quanto potere magico sarebbe rimasto a lui e a Ged se avessero continuato ad allontanarsi dalle terre dove gli uomini devono vivere.
Ged vegliò di nuovo, quella notte, e continuò a mantenere la barca diretta a oriente. Quando venne il giorno, il vento del mondo si acquietò un poco e il sole brillò a tratti, ma le grandi onde erano così alte che la Vistacuta doveva inclinarsi e scalarle come se fossero colline, e librarsi sulla cresta e precipitare all’improvviso, e risalire ancora, e ancora, all’infinito.
La sera di quel giorno, Veccia parlò dopo un lungo silenzio. — Amico mio — disse, — una volta parlavi come se fossi sicuro che avremmo trovato una terra. Non vorrei discutere la tua visione se non fosse per questo: potrebbe essere un trucco, un inganno di ciò che tu insegui, per attirarti più lontano di quanto un uomo possa spingersi sull’oceano. Perché il nostro potere può mutare e indebolirsi su mari sconosciuti. E un’ombra non si stanca, non muore di fame e non annega.
Sedevano a fianco a fianco, eppure adesso Ged lo guardava come da una grande distanza, attraverso un abisso. I suoi occhi erano turbati, e tardò a rispondere.
Infine annunciò: — Estarriol, ci stiamo avvicinando.
Udendo queste parole, il suo amico seppe che erano vere. Ed ebbe paura. Ma posò la mano sulla spalla di Ged e disse soltanto: — Benissimo, allora: va bene.
Anche quella notte Ged vegliò, perché non riusciva a dormire nell’oscurità. E non volle dormire quando spuntò il terzo giorno. Continuarono a correre sul mare con quell’incessante, lieve, terribile velocità, e Veccia si stupì del potere di Ged che riusciva a mantenere un vento magico tanto forte, per ore e ore, lì sul mare aperto, dove lui sentiva il proprio potere indebolito e smarrito. E continuarono e continuarono, fino a quando Veccia ebbe l’impressione che quanto aveva detto Ged si sarebbe avverato e che sarebbero andati oltre le sorgenti del mare, a oriente, oltre le porte del giorno. Ged stava a prua, e guardava avanti come sempre. Ma adesso non scrutava l’oceano, o almeno non l’oceano che vedeva Veccia, un deserto di acqua agitata all’orlo del cielo. Negli occhi di Ged c’era una cupa visione che si sovrapponeva al mare grigio e al cielo grigio: e l’oscurità crebbe, e il velo s’infittì. Veccia non vedeva nulla di tutto questo, tranne quando guardava il volto dell’amico: allora anche lui scorgeva la tenebra per un momento. Avanzarono, e avanzarono ancora. Ed era come se, sebbene un vento li spingesse su una barca, Veccia andasse a oriente sul mare del mondo mentre Ged procedeva da solo in un regno che non aveva oriente né occidente, né sorgere né tramontare del sole e delle stelle.
All’improvviso Ged si alzò, a prua, e parlò a voce alta. Il vento magico cadde. La Vistacuta rallentò, e si sollevò e ricadde tra le immense onde come un pezzetto di legno. Sebbene il vento del mondo spirasse forte come sempre dal nord, la bruna vela pendeva floscia, immota. E così la barca galleggiava sulle onde, agitata dal loro grande moto lento ma senza procedere in nessuna direzione.
Ged disse: — Ammaina la vela. — Veccia si affrettò a ubbidire, mentre lo Sparviero slegava i remi e li infilava negli scalmi e cominciava a remare.
Veccia, che vedeva solo le onde alzarsi e abbassarsi a perdita d’occhio, non riusciva a comprendere perché adesso procedessero a remi; ma attese, e poco dopo si accorse che il vento del mondo si affievoliva e le onde si acquietavano. La barca non salì e non discese più con tanta violenza, finché sembrò procedere, sotto i forti colpi di remo di Ged, su un’acqua quasi immobile, come in una baia racchiusa tra due bracci di terra. E sebbene Veccia non potesse scorgere ciò che Ged vedeva, quando tra un colpo e l’altro di remo si voltava a guardare ciò che stava sulla rotta della barca… Sebbene Veccia non potesse vedere i pendii neri sotto le stelle immote, cominciò a scorgere con il suo occhio di mago un’oscurità che saliva dalle cavità delle onde tutt’intorno alla barca, e vide le onde stesse divenire lente e torpide come se fossero ostacolate dalla sabbia.
Se era un incantesimo d’illusione, era incredibilmente potente: far sembrare terra il mare aperto. Cercando di chiamare a raccolta lucidità e coraggio, Veccia pronunciò l’incantesimo della rivelazione, scrutando tra le lente parole, in attesa di un cambiamento o di un tremito dell’illusione in quello strano prosciugarsi dell’abisso dell’oceano. Ma non c’era nulla. Forse l’incantesimo, sebbene dovesse influire solo sulla vista e non sulla magia in atto intorno a loro, lì non aveva potere. O forse non era un’illusione, ed erano giunti alla fine del mondo.
Senza badare a lui, Ged remava sempre più adagio, voltandosi a guardare, scegliendo un percorso tra canali o scogli e secche che lui solo poteva vedere. La barca ebbe un sussulto, quando la chiglia strusciò. Sotto quella chiglia stavano gli immensi abissi del mare, eppure loro erano incagliati. Ged ritrasse i remi negli scalmi: e quel rumore fu terribile, perché non c’erano altri suoni. Tutte le voci dell’acqua, del vento, del legno, della vela erano sparite, perdute in un immane e profondo silenzio che forse non si sarebbe mai spezzato. La barca stava immobile. Non spirava alito di vento. Il mare si era mutato in sabbia, cupa e ferma. Nulla si muoveva nel cielo scuro o su quel terreno irreale che sconfinava nell’oscurità intorno alla barca, fino a perdita d’occhio.
Ged si alzò e prese il suo bastone, e con passo leggero scavalcò il bordo della barca. Veccia credette di vederlo sprofondare nel mare, il mare che sicuramente si trovava dietro l’asciutto e fioco velo che nascondeva acqua e cielo e luce. Ma il mare non c’era più. Ged si allontanò dalla barca. La scura sabbia mostrava le sue orme, e frusciava un poco sotto i suoi passi.
Il bastone cominciò a risplendere, non di luce incantata ma di un limpido fulgore bianco, che presto divenne così brillante da arrossare le dita strette intorno al legno.
Ged avanzava, allontanandosi dalla barca ma senza una direzione. Non c’erano direzioni, lì: né nord né sud né est né ovest, voltanto verso e via da.
A Veccia, la luce portata da Ged sembrava una grande stella lenta che si muovesse nell’oscurità. E l’oscurità intorno si addensò, annerì, si condensò. Anche Ged vide questo, guardando sempre davanti a sé attraverso la luce. E dopo un poco vide, all’estremo limitare della luce, un’ombra che veniva verso di lui sulla sabbia.
Dapprima era informe, ma quando si avvicinò assunse la forma di un uomo. Sembrava un vecchio, grigio e torvo, e veniva verso Ged; ma già mentre Ged vedeva in quella figura suo padre il fabbro, si accorse che non era un vecchio ma un giovane. Era Diaspro: la bella faccia giovane e insolente di Diaspro, e il mantello grigio dalla fibbia d’argento, e l’andatura impettita. Pieno di odio era lo sguardo che fissava su Ged attraverso l’aria buia. Ged non si fermò ma rallentò il passo, e mentre avanzava sollevò più in alto il bastone. Il bastone s’illuminò di più, e nella sua luce l’aspetto di Diaspro abbandonò la figura che si avvicinava e che divenne Pechvarry. Il volto di Pechvarry era gonfio e pallido come quello di un annegato: protese la mano, stranamente, come in un cenno di richiamo. Ged non si fermò ma continuò a camminare, sebbene ormai tra loro ci fosse solo una distanza di poche braccia. Poi la cosa che lo fronteggiava cambiò completamente, allargandosi come se spiegasse enormi ali sottili, e si contorse e si gonfiò e si contrasse. Ged vi scorse per un istante la bianca faccia di Skiorh, e poi un paio d’occhi annebbiati e fissi, e poi all’improvviso una faccia spaventosa che non conosceva, uomo o mostro, con labbra frementi e occhi che erano abissi spalancati sul vuoto nero.