Con poche parole, il comandante accettò di portare Ged a Roke, poiché era stato un mago a chiederlo; e il mastro del porto lasciò con lui il ragazzo. Il comandante dell’Ombra era un uomo alto e grasso, avvolto in un mantello rosso foderato di pelli di pellawi, come usano i mercanti delle Andrades. Non guardò Ged ma gli chiese, con voce potente: — Puoi cambiare il tempo, ragazzo?
— Sì.
— Puoi portare il vento?
Ged dovette dire che non sapeva farlo, e allora il capitano gli disse di trovarsi un posticino e di non stare tra i piedi.
I rematori stavano salendo a bordo, perché la nave doveva uscire dal porto prima che scendesse la notte e veleggiare col riflusso verso l’alba. Non c’erano posti dove potesse stare fuori dai piedi, ma Ged si arrampicò più in alto che poté sul carico legato e coperto di pelli a poppa della nave, e standosene lì aggrappato osservò tutto ciò che avveniva. I rematori balzarono a bordo, uomini robusti dalle grandi braccia, mentre gli scaricatori facevano rotolare rumorosamente i barili d’acqua e li stivavano sotto i banchi. La nave, ben costruita, era bassa sul pelo dell’acqua, tanto era carica: eppure si dondolava un poco sulle onde lambenti della riva, pronta a partire. Poi il timoniere prese il suo posto a destra del dritto di poppa, rivolgendo lo sguardo al comandante che stava in piedi su un tavolato alla congiunzione tra la chiglia e il dritto di prua, scolpito in forma dell’Antico Serpente di Andrad. Il comandante ruggì gli ordini con voce sonante, e l’Ombra fu disormeggiata e rimorchiata lontano dai moli da due scialuppe a remi. Poi il comandante ruggì «Aprite le cubie!» e i grossi remi uscirono rumorosamente, quindici per parte. I rematori piegarono le schiene robuste, mentre un ragazzo, lassù a fianco del comandante, batteva il ritmo su un tamburo. Ora la nave prese a procedere agile come un gabbiano spinto dalle ali, e il frastuono della città si perse all’improvviso dietro di loro. Uscirono nel silenzio delle acque della baia, e sopra di loro giganteggiava il picco bianco della montagna, che sembrava aleggiare sul mare. In una foce poco profonda, al riparo dello scoglio Corazzato meridionale, fu gettata l’ancora: e là passarono la notte.
Dei settanta uomini dell’equipaggio alcuni erano giovanissimi come Ged, sebbene tutti avessero celebrato il passaggio alla condizione di uomo. I ragazzi l’invitarono a dividere con loro cibi e bevande, e furono piuttosto amichevoli sebbene rudi e pronti agli scherzi e alle canzonature. Lo chiamavano Capraio, naturalmente, perché era di Gont: ma non si spingevano oltre. Lui era alto e forte come un quindicenne, e pronto a ricambiare una parola gentile o un sarcasmo; perciò si affiatò con loro e fin da quella prima notte cominciò a vivere come uno di loro e a imparare il loro mestiere. La cosa piacque agli ufficiali della nave, perché a bordo non c’era posto per i passeggeri oziosi.
Non c’era molto spazio per l’equipaggio, e non c’erano comodità in una galea senza ponti, affollata di uomini, di materiale e di carico; ma cosa importava, a Ged, delle comodità? Quella notte si sdraiò fra i rotoli di pelli provenienti dalle isole settentrionali e guardò le stelle della primavera che brillavano sulle acque del porto e le minuscole luci gialle della città, a poppa; e si addormentò, e si risvegliò contento. Prima dell’alba la marea cambiò. Levarono l’ancora e passarono remando tra gli scogli Corazzati. Quando il sole arrossò la montagna di Gont alle loro spalle, alzarono la vela e volarono verso sudovest, sul mare di Gont.
Tra Barnisk e Torheven veleggiarono spinti da un vento leggero, e il secondo giorno giunsero in vista di Havnor, l’isola Grande, cuore e focolare dell’arcipelago. Per tre giorni procedettero in vista delle verdi colline di Havnor, seguendone la costa orientale, ma non scesero a terra. Solo molti anni dopo Ged posò piede su quella terra e vide le bianche torri del Gran Porto di Havnor, al centro del mondo.
Si fermarono una notte a Foce del Kember, il porto settentrionale dell’isola di Way, e la notte seguente in una cittadina all’imboccatura della baia di Felkway; e il giorno dopo doppiarono il capo settentrionale di O ed entrarono nello stretto di Ebavnor. Lì ammainarono la vela e remarono, sempre in vista della terra da entrambe le parti e sempre a portata di voce da altre navi, grandi e piccole: mercantili giunti dagli stretti Esterni con strani carichi, dopo un viaggio di molti anni, e altri che saltellavano come passerotti da un’isola all’altra del mare Interno. Deviando verso sud, uscirono dall’affollato stretto e si lasciarono a poppa Havnor, navigando tra le due belle isole di Ark e Ilien, ricche di città dalle molte torri e dalle molte terrazze, e poi procedettero tra la pioggia e i venti attraverso il mare Interno per dirigersi all’isola di Roke.
Nella notte, quando il vento rinforzò e divenne tempestoso, abbassarono la vela e staccarono l’albero, e l’indomani procedettero a remi per tutto il giorno. La lunga nave stava salda sulle onde e avanzava coraggiosamente, ma il timoniere al lungo remo di poppa guardava la pioggia che batteva il mare e non riusciva a vedere altro. Si dirigevano verso sudovest affidandosi alla bussola: sapevano come andavano, ma non sapevano bene attraverso quali acque. Ged sentì gli uomini parlare degli scogli a nord di Roke, e delle Rocce di Borilous all’est; altri sostenevano che forse ormai erano fuori rotta, nelle acque deserte a sud di Kamery. Il vento rinforzò ancora, lacerando le creste delle grandi onde in brandelli volanti di spuma; e loro continuavano a remare verso sudovest, col vento alle spalle. I turni ai remi furono ridotti, perché la fatica era grande; i ragazzi più giovani vennero assegnati due per remo, e Ged fece i suoi turni come gli altri, come aveva sempre fatto da quando erano partiti da Gont. Quando non remavano, sgottavano, perché le onde irrompevano pesanti a bordo. Così faticavano tra le onde che correvano come montagne gigantesche sospinte dal vento, mentre la pioggia batteva fredda e violenta sulle loro schiene e il tamburo rullava cadenzato nel frastuono della tempesta come il battito di un cuore.
Un uomo venne a sostituire Ged al remo, e lo mandò dal comandante, a prua. L’acqua piovana sgocciolava dall’orlo del mantello del comandante, che stava saldo come una botte. Abbassando lo sguardo su Ged, chiese: — Puoi placare il vento, ragazzo?
— No, signore.
— Conosci l’arte del ferro?
Intendeva chiedere a Ged se poteva fare in modo che l’ago della bussola indicasse la direzione di Roke invece di segnare il nord. Quell’arte era un segreto dei maestri del mare, e ancora una volta Ged dovette rispondere di no.
— Bene — gridò il comandante nel vento e nella pioggia, — allora dovrai trovare una nave che ti porti a Roke da Città di Hort. Roke dev’essere ormai a occidente, rispetto a noi, e solo la magia potrebbe portarci là con questo mare. Dobbiamo continuare a dirigere verso sud.
A Ged quella prospettiva non piaceva, perché aveva sentito i marinai parlare di Città di Hort: era un luogo senza legge, pieno di traffici illeciti, dove spesso gli uomini venivano catturati e venduti schiavi nello stretto Meridionale. Ritornò al remo e riprese il lavoro insieme al suo compagno, un robusto ragazzo andradeano, e udì il tamburo battere il ritmo e vide la lanterna appesa a poppa oscillare e guizzare, sbatacchiata dal vento, come un tormentato punto di luce nell’oscurità sferzata dalla pioggia. Continuò a guardare verso occidente più che poteva, nel pesante ritmo della remata. E quando la nave si sollevò sulla cresta di un’onda altissima, vide per un momento, oltre l’acqua scura e fumante, una luce tra le nubi, che poteva essere l’ultimo bagliore del tramonto: ma quella era una luce chiara, non rossa.
Il suo compagno non l’aveva vista, ma lui gridò per annunciarla. Il timoniere stette attento, cercandola ogni volta che la nave veniva sollevata dalle grandi onde, e la vide proprio mentre Ged la rivedeva; ma gridò di rimando che era soltanto il sole calante. Allora Ged chiamò uno dei ragazzi che sgottavano, facendosi sostituire al remo per un momento; si avviò di nuovo verso prua, lungo la corsia ingombra tra i banchi, e afferrandosi al tagliamare scolpito per non farsi rovesciare in mare gridò al comandante: — Signore! Quella luce a occidente è l’isola di Roke!