— Io non ho visto nessuna luce! — ruggì il comandante, ma mentre parlava, Ged protese il braccio, indicando, e tutti videro la luce brillare nitida a occidente, sopra la schiuma e il tumulto delle onde.
Non per favorire il suo passeggero, ma per salvare la nave dal pericolo della tempesta, il comandante gridò subito al timoniere di dirigersi verso occidente, verso la luce. Ma disse a Ged: — Ragazzo, tu parli come un maestro del mare, ma ti assicuro che se sbagli a guidarci in questo tempaccio ti getterò in mare e lascerò che tu raggiunga Roke a nuoto!
Ora, invece di precedere la tempesta, dovettero remare trasversalmente rispetto al vento, e fu un’impresa dura: le onde investivano la nave di fianco e la spingevano sempre a sud della nuova rotta, e la facevano rollare, e i rematori dovevano stare in guardia perché il movimento non sollevasse i remi dall’acqua mentre li tiravano, facendoli cadere tra i banchi. Era quasi buio, sotto le nubi temporalesche; ma di tanto in tanto si scorgeva ancora la luce a occidente, quanto bastava per regolare la rotta, e perciò continuarono così. Finalmente il vento si attenuò un poco, e la luce ingrandì davanti a loro. Continuarono a remare, e fu come se a un certo punto superassero una cortina: da un colpo di remo all’altro uscirono dalla tempesta nell’aria limpida, dove la luce del crepuscolo splendeva nel cielo e sul mare. Oltre le onde crestate di spuma videro, non molto lontano, un’alta collina verde e tondeggiante, e ai suoi piedi una città costruita su una piccola baia, dove stavano all’ancora diverse imbarcazioni e tutto era pace.
Il timoniere, appoggiandosi sul lungo remo, girò la testa e gridò: — Signore! È una terra vera o una stregoneria?
— Continua così, stupida testa di legno! Remate, smidollati figli di schiavi! Quelle sono la baia di Thwil e la collina di Roke, e qualunque idiota lo capirebbe! Remate!
E così, al rullo del tamburo, entrarono nella baia, remando stancamente. C’era silenzio, e udirono le voci della gente in città e i rintocchi di una campana, e soltanto in lontananza il sibilo e il ruggito della tempesta. Le nubi incombevano scure a nord e a est e a sud a un miglio di distanza dall’isola. Ma sopra Roke le stelle stavano spuntando, a una a una, in un cielo limpido e sereno.
LA SCUOLA DEI MAGHI
Quella notte Ged dormì a bordo dell’Ombra, e al mattino dopo, di buon’ora, si accomiatò da quei suoi primi compagni, che gli gridavano allegramente parole augurali mentre lui si avviava lungo i moli. La città di Thwil non è grande, e le sue alte case stanno raccolte intorno a poche vie strette e ripide. A Ged, però, sembrava una grande città, e poiché non sapeva dove andare chiese al primo che incontrò dove poteva trovare il rettore della scuola di Roke. L’uomo lo guardò di sottecchi per qualche istante e disse: — Il saggio non deve chiedere, lo sciocco chiede invano. — E si allontanò. Ged continuò a salire finché giunse in una piazza, cinta su tre lati dalle case con i tetti spioventi d’ardesia e sul quarto lato dal muro di un grande edificio, le cui finestrelle erano più alte dei comignoli delle case: sembrava una fortezza o un castello, costruito con possenti blocchi di pietra grigia. Nella piazza c’erano i chioschi del mercato, e la gente andava e veniva. Ged ripeté la domanda a una vecchia con un cesto di mitili, e quella rispose: — Puoi sempre trovare il rettore dov’è, ma qualche volta lo troverai dove non è. — E riprese a gridare per magnificare i suoi mitili.
Nel grande edificio, vicino all’angolo, c’era una porticina di legno. Ged la raggiunse e bussò forte. Al vecchio che venne ad aprirgli disse: — Ho una lettera del mago Ogion di Gont per il rettore della scuola di quest’isola. Voglio trovare il rettore, ma non voglio udire altri indovinelli e altre beffe!
— La scuola è questa — disse placido il vecchio. — Io sono il portinaio. Entra, se puoi.
Ged fece un passo avanti. Gli parve di aver varcato la soglia, eppure era ancora fuori sul selciato.
Avanzò di nuovo, e di nuovo restò fuori dalla porta. Il custode, all’interno, l’osservava con aria mite.
Ged era più incollerito che sconcertato, perché quella gli sembrava un’altra beffa. Con la voce e con la mano eseguì l’incantesimo dell’apertura, che sua zia gli aveva insegnato tanto tempo prima: era il più prezioso fra tutti i sortilegi che lei conosceva. Ma era soltanto un incantesimo da strega, e il potere che custodiva quella soglia non ne fu minimamente scosso.
Ged restò lì a lungo. Infine guardò il vecchio, che continuava ad attendere. — Non posso entrare — ammise controvoglia, — se tu non mi aiuti.
Il portinaio replicò: — Di’ il tuo nome.
Ged restò di nuovo immobile per qualche istante: un uomo non pronuncia mai il suo nome a voce alta se non quando è in gioco qualcosa di più della sua vita.
— Io sono Ged — disse a voce alta. Poi avanzò e varcò la soglia. Tuttavia gli parve che, sebbene la luce fosse dietro di lui, un’ombra lo seguisse da vicino.
E quando si voltò, vide anche che la soglia che aveva varcato non era di semplice legno come aveva creduto, ma d’avorio, senza giunture o commessure: come apprese più tardi, era intagliata da un dente del Grande Drago. La porta che il vecchio chiuse alle sue spalle era di corno polito, e lasciava trasparire lievemente la luce del giorno, e sul pannello interno era intagliato l’albero dalle mille foglie.
— Benvenuto in questa casa, ragazzo — disse il custode, e senza aggiungere altro lo condusse per gallerie e corridoi fino a un cortile scoperto, al centro dell’edificio. Il cortile era lastricato in parte ma non aveva tettoie, e su uno spiazzo erboso una fontana zampillava sotto alberi giovani, nella luce del sole. Ged rimase solo ad attendere, per un po’. Restò immobile, mentre il cuore gli batteva forte perché gli pareva di percepire presenze e poteri invisibili all’opera intorno a lui e capiva che quel luogo era fatto non soltanto di pietre ma anche di una magia più forte della pietra. Era nella sala più interna della Casa dei Saggi, che era aperta al cielo. Poi, di colpo, scorse un uomo biancovestito che l’osservava attraverso gli spruzzi d’acqua della fontana.
Quando i loro sguardi s’incontrarono, un uccello cantò tra i rami di un albero. In quel momento Ged comprese il canto dell’uccello e il linguaggio dell’acqua che cadeva nella vasca della fontana, e la forma delle nubi e l’inizio e la fine del vento che faceva stormire le foglie: gli parve di essere lui stesso una parola pronunciata dalla luce del sole.
Poi quel momento passò, e lui e il mondo tornarono come prima, o quasi come prima. Ged si mosse e andò a inginocchiarsi davanti all’arcimago, tendendogli la lettera scritta da Ogion.
L’arcimago di Nemmerle, rettore di Roke, era vecchio: il più vecchio, si diceva, di tutti i viventi. La sua voce tremolava come la voce dell’uccello, quando parlò per dare cortesemente il benvenuto a Ged. I capelli, la barba e la veste erano candidi, e sembrava che tutta l’oscurità e la pesantezza fossero state cancellate in lui dal lento uso degli anni, lasciandolo bianco e consunto come un legno gettato a riva dopo aver galleggiato sulle onde per un secolo. — I miei occhi sono vecchi: non posso leggere ciò che ha scritto il tuo maestro — disse, con quella voce tremula. — Leggimi la lettera, ragazzo.
Perciò Ged lesse a voce alta il messaggio, che era in rune hardesi e diceva solo questo: Nobile Nemmerle! Ti mando colui che diventerà il più grande mago di Gont, se il vento spira come deve. Era firmato non già col vero nome di Ogion, che Ged non conosceva ancora, ma con la runa di Ogion, la Bocca Chiusa.