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Comunque non mi fidavo a rifiutare. Potevo venire accusato ancora del reato di freddezza. Sarebbe stata la quinta volta e avrebbe significato cinque anni di invisibilità. Avevo imparato a essere umile.

Il ritorno alla visibilità comportava situazioni imbarazzanti. Vecchi amici da incontrare, conoscenze da rinnovare, deboli conversazioni da sostenere. Per un anno ero stato in esilio nella mia stessa città. Il ritorno non fu facile.

Nessuno naturalmente fece cenno al mio periodo di invisibilità considerandola come una malattia della quale era meglio non parlare. Tutta ipocrisia, pensavo, ma mi adattai. Indubbiamente stavano tutti cercando di essere gentili con me. Chi direbbe a un uomo al quale è stato sostituito lo stomaco colpito da cancro: “Ho sentito che l’hai scampata bella?”. Chi direbbe a un uomo il cui vecchio padre è stato spedito a una casa di eutanasia: “Be’, comunque ormai era solo un relitto?”.

E così nella mia vita c’era questo buco, questa parentesi che i miei amici non avevano condiviso con me e che lasciava ben poco di cui parlare. Inoltre avevo completamente perso il gusto e l’abitudine della conversazione. Il periodo di riadattamento fu molto penoso.

Ma non mi persi d’animo, perché non ero più l’uomo autosufficiente e arrogante che ero stato prima della condanna. Avevo imparato l’umiltà alla più severa delle scuole.

Di tanto in tanto notavo qualche Invisibile per le strade. Era impossibile evitarli. Ma dopo la lezione che avevo avuto, distoglievo subito lo sguardo come se i miei occhi si fossero posati su qualcosa di orribile e disgustoso che non apparteneva al nostro mondo.

Fu al quarto mese dal mio ritorno alla visibilità che l’ultima lezione della condanna appena scontata arrivò a segno. Mi trovavo nella sezione documenti dell’amministrazione pubblica. Avevo finito il lavoro e stavo camminando verso la sotterranea quando una mano emerse dalla folla e mi afferrò il braccio.

«Per favore» mormorò una voce. «Aspetta un momento. Non aver paura.»

Alzai gli occhi, sbalordito. Nella nostra città gli sconosciuti non si parlano tra loro.

Vidi subito il marchio dell’invisibilità sulla fronte dell’uomo. Poi lo riconobbi. Era il giovane magro che avevo avvicinato più di sei mesi prima in quella strada deserta. La faccia gli era diventata più dura, gli occhi avevano un’espressione allucinata, i capelli scuri erano striati di grigio. Allora, quando l’avevo fermato io, doveva essere all’inizio della condanna. Adesso era vicino alla fine.

Mi teneva il braccio. Tremai. Quella non era la strada deserta. Era la piazza più frequentata della città. Liberai il braccio dalla sua stretta e feci per voltarmi.

«Non andare via!» gridò. «Non hai dunque pietà di me? Anche tu ci sei passato.»

Feci un passo. Poi ricordai quando ero stato io a gridare così a lui, quando l’avevo supplicato di non respingermi. Ricordai la mia tremenda solitudine.

Feci un altro passo.

«Vigliacco!» mi gridò lui. «Parlami! Avanti, vigliacco, dimmi qualcosa!»

E all’improvviso mi sentii gli occhi pieni di lacrime, mi volsi e tesi la mano verso di lui. Lo afferrai per il polso sottile. Parve elettrizzato dal contatto. Un attimo dopo lo stringevo tra le braccia, come per prendere su di me un po’ della sua disperazione.

In un attimo i robot della Sicurezza ci furono addosso. Lui venne spinto da una parte, io fui arrestato. Mi processeranno ancora, non per reato di freddezza questa volta, ma per reato di calore umano. Forse troveranno delle circostanze attenuanti e mi rilasceranno; forse no.

Non me ne importa. Se mi condannano, giuro che questa volta porterò la mia invisibilità come una corona di re.