Walter M. Miller Jr.
Il mattatore
All’Universal della Quinta Strada si stava programmando Giuda, Giuda e il cast era tutto di umani. Per vederlo, Ryan Thornier aveva fatto dei risparmi per diverse settimane e ora poteva permettersi un biglietto per una matinée. Era stata una corsa contro il tempo tra il suo salvadanaio e i portafogli degli svariati angeli, pieni di spirito civico, che mandavano avanti lo spettacolo, e il salvadanaio aveva vinto. Avrebbe potuto godersi lo spettacolo prima che i portafogli si sgonfiassero e che il teatro chiudesse i battenti, come era destino di qualsiasi spettacolo del genere, dopo poche settimane di fiacca. Fu preso dall’entusiasmo dell’attesa. Dopo aver guardato, giorno dopo giorno, lo squallido scimmiottamento di arte drammatica al New Empire Theatre, dove lavorava come custode, l’opportunità di poter vedere del vero teatro gli sembrava una boccata d’aria pura.
La mattina del giovedì andò al lavoro con un’ora di anticipo e ci diede dentro a tutta forza. Terminò prima dell’una, fece una doccia nei camerini, si cambiò d’abito e salì nervosamente le scale per andare a domandare a Imperio D’Uccia il permesso di uscire per il resto della giornata.
D’Uccia era insediato dietro una scrivania traballante, sistemata vicino a un muro ricoperto da fotografie di dive poco vestite dei giorni andati. Ascoltò la petizione del custode con un sorriso leggero, quasi orientale, che sembrava esprimere simpatia, poi si alzò di tutto il suo metro e sessantacinque, si appoggiò alla scrivania con le mani paffute per studiare Thornier con i suoi occhietti brillanti.
— Libbera? Così vogliamo la ggiornata libbera? Mmmmmm… — Scosse la testa come se fosse stupito da una richiesta tanto balorda.
Il custode strisciò i piedi a disagio. — Sissignore. Ho finito il lavoro e Jigger starà qui a sostituirmi nel caso lei avesse bisogno di qualcosa. — Fece una pausa. D’Uccia stava studiandosi le unghie e aggrottava la fronte con aria grave. — In due anni non ho mai chiesto un giorno libero, signor D’Uccia — aggiunse — ed ero certo che non trovasse niente in contrario, dopo tutti gli straordinari che ho…
— Jigger — grugnì D’Uccia. — E cchi è ’sto Jigger?
— Lavora al Paramount. È chiuso per restauri e può venire…
Il direttore del teatro grugnì con forza, agitando le mani.
— Io non pago nessun Jigger, io pago te. Ma che cosa mi vieni a raccontare? Hai lavato pe’ terra, hai messo via le cose, hai finito tutto, eh? Vuoi la ggiornata libbera. Ecco che cosa c’è di sbagliato al mondo, c’è troppo tempo libbero. Lasciamo a lavorare le macchine. Più tempo per combinare guai. — Il direttore del teatro uscì da dietro la scrivania e si diresse ciondolando verso la porta, allungò fuori il collo massiccio, guardò su e giù per il corridoio, poi tornò indietro sempre ciondolando verso Thornier e puntò un dito corto e grassoccio verso il lungo e maestoso naso del suo dipendente.
— Quand’è stata l’ultima volta che hai lucidato il pavimento del piano di sopra, eh?
Afflitto, Thornier rimase a bocca aperta.
— Be’ io…
— Non dirmi bugie. Guarda quell’entrata. Fa schifo, guarda! T’ho detto di guardare. — Prese Thornier per un braccio, lo trascinò fino alla porta e indicò concitato il vecchio e malandato pavimento di rovere. — Fa schifo, hai visto? Quand’è che abbiamo intenzione di dare un po’ di cera, eh?
Un profondo brivido sembrò scuotere da capo a piedi l’anziano e magro custode. Sospirò rassegnato e si voltò a guardare D’Uccia con tristi occhi grigi.
— Posso avere il pomeriggio libero, oppure no? — domandò senza speranza, sapendo già la risposta.
Ma D’Uccia non si accontentò di un semplice rifiuto. Cominciò a passeggiare. Evidentemente prendeva la cosa molto sul serio. Difese il sistema della libera iniziativa e le care tradizioni del teatro. Parlò eloquentemente delle virtù cardinali dell’industriosità e della dedizione al dovere. Si agitava come un pechinese scatenato che abbaia convinto contro uno spaventapasseri. Il collo di Thornier divenne rosso e la bocca gli si serrò.
— Posso andare adesso?
— E quand’è che lucidiamo i pavimenti? Quando puliamo le poltrone e controlliamo le luci? Quando ripuliamo i camerini, eh? — Fissò un momento Thornier, poi girò sui tacchi e si diresse a passo di carica verso la finestra. Cacciò il pollice nella sporcizia del recipiente sul davanzale dove alcuni gigli stavano già sbocciando. — Ah! — sbuffò — secchi, come pensavo! Credi forse che questi bulbi non abbiano bisogno di bere, eh?
— Ma li ho annaffiati questa mattina. Il sole…
— Ah! E tu lasci che questi fiorellini secchino e muoiano, eh? E tu vuoi pure avere la ggiornata libbera?
Era inutile. Quando D’Uccia indossava il suo manto di ostinata sordità o di falsa stupidità, diventava impenetrabile a qualsiasi richiesta o spiegazione. Thornier sospirò lentamente a denti stretti, fissò rabbiosamente il suo datore di lavoro per un momento e sembrò per un attimo pronto a lasciare esplodere la sua collera. Dopo averci pensato meglio, si morse il labbro, si voltò e uscì dall’ufficio, senza parlare. D’Uccia lo seguì trionfante fino alla porta.
— Non andare via di nascosto adesso! — gridò minaccioso e restò sorridente nel corridoio finché il custode svanì lungo le scale. Poi sospirò e tornò in ufficio a prendere cappello e cappotto. Stava preparandosi a uscire quando Thornier tornò di sopra carico di secchi, scope e stracci.
Il custode, quando vide cappotto e cappello, si fermò e il suo viso incavato divenne curiosamente vacuo. — Torna a casa, signor D’Uccia? — domandò gelido.
— Già. Sto lavorando troppo, dice il dottore. Ho bisogno di sole, di aria pura. Vado a riposarmi un po’ sulla spiaggia.
Thornier si chinò sul manico della scopa e sorrise malignamente. — Certo — disse. — Lasciamo lavorare le macchine.
Il commento era sprecato, con D’Uccia. Questi agitò una mano, si diresse verso le scale e gridò un arzillo: — A rivederci! — senza girarsi.
— A rivederci, padrone - mormorò Thornier con gli occhi chiari che brillavano nell’intrico delle rughe. Per un attimo il suo viso sembrò trasfigurarsi… e per un’altra volta divenne l’Adolfo del Cantico per l’uomo di morte di Chaubrec, all’uscita del comandante, atto secondo, scena quarta.
Da qualche parte, al piano inferiore, una porta sbatté alle spalle di D’Uccia.
— A morte! — sibilò Adolfo-Thornier, gettando indietro la testa per ridere con la risata di Adolfo. Fece tremare le pareti. Quando l’eco morì, si sentì un po’ meglio. Raccolse secchi e scope e si diresse lungo il corridoio sino all’ufficio di D’Uccia.
A meno che Giuda, Giuda non restasse in programma per tutta la fine settimana, non avrebbe potuto andare a vederlo, dal momento che non poteva permettersi un biglietto per lo spettacolo della sera ed era inutile chiedere favori a D’Uccia. Mentre lucidava l’ingresso si sentiva ribollire. Lucidò fino alla soglia dell’ufficio di D’Uccia e si fermò a guardare nell’interno per alcuni minuti.
— Sono stufo — disse alla fine.
L’ufficio rimase silenzioso. I gigli nel vaso sul davanzale si chinarono nella brezza.
— Piccolo verme! — brontolò. — Ne ho abbastanza!
L’ufficio restò muto. Thornier rizzò le spalle e si batté il petto.
— Io, Ryan Thornier, me ne vado via, hai capito? La commedia è finita!
Poiché dall’ufficio non venne risposta, girò sui tacchi e scese dabbasso. Alcuni minuti più tardi tornò indietro con un barattolo di vernice dorata e un paio di pennelli presi dal magazzino. Di nuovo si fermò sulla soglia.
— C’è dell’altro da fare, signor D’Uccia? — disse mellifluo.