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— È già stato fatto… in provincia.

— Sì, ma il pubblico sapeva tutto e questa è una cosa che rovina sempre lo spettacolo. Crea dei contrasti che non esistono o che altrimenti non verrebbero rilevati. Fa sembrare i manichini sinuosi, svolazzanti, troppo elastici e veloci. Senza umani a far contrasto sul palcoscenico, i manichini sembrano soltanto fatti di pensosa grazia, eterei.

— Ma se il pubblico non lo sapesse…

Giada sorrise leggermente. — Me lo chiedo — disse meditabonda. — Mi chiedo se avrebbero un dubbio. Naturalmente, noterebbero una differenza… in un manichino.

— Ma penserebbero soltanto a una particolare interpretazione del Maestro.

— Forse… se l’attore umano facesse attenzione.

Ridacchiò con amarezza. — Se ingannasse i critici…

— Qualche idiota scriverebbe “un’interpretazione abissalmente antirealistica” oppure “troppo evidentemente meccanica”. — Gettò un’occhiata all’orologio, si scosse, si stirò faticosamente e tornò a infilarsi le scarpe. — Comunque — aggiunse — non c’è ragione di farlo, dal momento che il Maestro è davvero capace di un’interpretazione migliore di quella umana.

L’affermazione strappò al custode un’esclamazione angosciata. Lo guardò e sorrise. — Non impressionarti, Thorny. Ho detto «capace di…» non «fa di solito». L’autodramma diverte il pubblico al livello a cui il pubblico vuole essere divertito.

— Ma…

— Proprio — aggiunse con fermezza — come il mondo dello spettacolo ha sempre fatto.

— Ma…

— Oh, tira dentro quegli occhi, Thorny. Non volevo bestemmiare. — Si aggiustò, ricominciando ad assumere l’aspetto dell’impresario, preparandosi a tornare alla sua gente. — La sola cosa sbagliata nell’autodramma è che si è man mano abbassato al livello degli imbecilli… ma è successo sempre così all’industria dello spettacolo e probabilmente bisogna che sia così. Anche se a noi bambini questo duole. — Sorrise e gli diede un buffetto sulla guancia. — Mi dispiace di averti scosso. Au ’voir, Thorny. E auguri.

Quando se ne fu andata, sedette, tastando le cartucce nella sua tasca e fissando il vuoto. Nessuno di loro aveva un po’ di sensibilità? Anche Giada, una venditrice di princìpi. E lui aveva sempre pensato che lei si fosse compromessa per pura necessità, contro i suoi desideri. L’idea che ella potesse davvero credere l’autodramma capace di dare un’interpretazione migliore di quella di un essere umano…

Non era possibile. Naturalmente lei aveva bisogno di razionalizzare, di scusare quel che ora faceva…

Sospirò e andò a chiudere la porta a chiave, poi riprese dal baule il vecchio copione dell’Anarchico. Le mani gli tremavano leggermente, aveva insinuato l’idea a sufficienza nella mente di Giada: l’avrebbe ricordata più tardi? O forse l’avrebbe ricordata troppo chiaramente e cominciato a sospettare?

Si riscosse con decisione. Le preoccupazioni non erano permesse. Quando Rick avrebbe suonato il campanello per la seconda prova sarebbe stata la sua battuta d’avvio: avrebbe dovuto esser già entrato nella parte per quel momento. Peccato non essere un commediante, peccato non potersi scaldare e raffreddare come faceva Giada, ma la necessità di una lunga concentrazione era lo scotto che doveva pagare il mattatore. Non poteva entrare in una parte senza prima cambiare se stesso, lasciando che la revisione filtrasse all’esterno come poteva, riflettendo lo stato d’animo dell’uomo.

Le note di Mussorgsky risuonarono tra le pareti. Chiuse gli occhi per ascoltare e intendere. Musica per un impero, musica insieme brutale e maestosa. Era il tempo della riscossa, della vendetta, dello sconvolgimento. Due tempi, sovrapposti. Era il tempo della serata di gala, dieci anni prima, con Ryan Thornier nella parte del protagonista. Cadde in una specie di trance misurando le sensazioni dello spirito mentre ascoltava e ricordò. A malapena si rese conto che la musica era finita e che le prime battute del dramma giungevano attraverso le pareti.

— Ferma! Ferma! — Un grido preoccupato: era Feria.

Era cominciato.

Thornier respirò profondamente e sembrò risvegliarsi. Quando aprì gli occhi e si alzò in piedi, il custode non c’era più. Quella del custode era stata una parte da incubo, nient’altro.

E Ryan Thornier, divo di Partiam, partiam, prediletto dai critici, fidente in uno splendido futuro, uscì dal magazzino con passo stranamente leggero. Portava una scopa, indossava ancora una lurida tuta, ma ora come fosse un costume di scena.

Il manichino di Peltier era scompostamente disteso sul palcoscenico in un grottesco ammasso. Ryan Thornier lo fissò con aria calma da dietro le quinte mentre ascoltava attentamente il fitto chiacchierìo dei macchinisti e dei tecnici intorno a lui.

— Non lo so. Non posso dire niente, ancora. È uscito barcollando e farfugliando… come se fosse sbronzo. Ha annaspato verso il tavolo, poi è caduto a faccia in giù.

— Si comportava come se il guaio dipendesse da un nastro mal messo, ma Rick lo ha ricontrollato: è davvero il nastro di Peltier…

— Non capisco. La Ferne sta dando i numeri.

Thornier indugiò a valutare il suo pubblico. Giada, Ian, e tutta la loro troupe che si raggruppavano nell’orchestra. Il palcoscenico era vuoto, a parte il manichino grottesco. In mezzo a tutto quel frenetico chiacchierare la sua entrata non sarebbe stata notata. Entrò lentamente in scena e sovrastò il pupazzo caduto, le mani in tasca e il viso rattristato da un’espressione luttuosa. Dopo un poco diede al pupazzo un colpetto con la punta del piede, aspettò un attimo poi gli diede un altro colpetto. Dall’orchestra venne un ridacchiare sommesso; con la coda dell’occhio notò una rapida occhiata di Giada verso la scena: si era interrotta a metà di una frase.

Sicuro che lei lo stesse guardando, recitò per un immaginario amico tra le quinte: gli lanciò un’occhiata, poi alzò le sopracciglia con aria interrogativa. Apparentemente l’amico gli fece un cenno d’assenso; si guardò attorno cautamente, si inginocchiò accanto al fantoccio caduto: gli tastò il polso, annuì premurosamente verso l’amico fuori scena. Dall’orchestra venne un’altra risatina. Sollevò la testa del fantoccio, gli annusò l’alito e fece una smorfia; poi lo girò con cautela.

Infilò profondamente nella tasca del manichino la mano in cui aveva precedentemente nascosto il proprio orologio, ve la lasciò un poco, poi sorrise al complice tra le quinte e annuì con aria avida. Estrasse l’orologio sollevandolo per la catena, cercando l’approvazione del suo complice.

Il personale della produzione scoppiò in una risata fragorosa. La risata spaventò il ladro. Scoccò in giro un’occhiata timorosa, frettolosamente restituì l’orologio al manichino caduto e gli ritastò il polso. Scambiò una rapida occhiata col compare, sussurrò — Aha! — e sorrise con aria misteriosa; poi aiutò il pupazzo a tirarsi in piedi e se lo portò via barcollando… un amico che riaccompagna un ubriaco a casa. Sulla soglia si fermò per sottolineare la sua uscita con un’occhiata circospetta all’indietro, per far capire che lo stava portando in un vicolo buio dove poterlo derubare in santa pace.

Giada lo guardava a bocca aperta.

Tre tecnici che erano stati a guardare dalle quinte e ridevano di cuore gli batterono sulla spalla mentre passava, impersonando il pubblico fuori scena per cui aveva fatto finta di recitare.

Dalla troupe di Giada in sala venne un applauso cordiale: e mentre portava il fantoccio verso il magazzino, Thornier borbottava sommessamente.

Alle sei meno cinque Rick Thomas e uno degli uomini della Smithfield scesero dalla cabina di controllo e Giada si fece largo tra la gente interrogandoli con lo sguardo.