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— Non è andata granché bene, Thorny. Qualunque cosa tu facessi nella prima scena, fallo ancora. Eri un po’ legnoso, adesso. Rifai l’ultimo pezzo e dacci dentro. Andreyev non è un orso impazzito degli Urali. Comunque adesso tocca a Marka. Andiamo.

Annuì lentamente e guardò attorno a sé i fantocci rigidi. Doveva dimenticare il meccanismo; doveva perdercisi dentro e viverlo, anche se questo voleva dire essere un pezzo di ricambio nel meccanismo. In qualche modo questo gli dava fastidio, nonostante fosse abituato, come nei tempi andati, a subordinare se stesso all’univoca gestalt scenica. Senza ragione apparente, si scoprì a tender l’orecchio per udire delle risate da parte di quelli della produzione, ma non ce ne furono.

— Va bene — gridò Feria. — Diamogli un po’ d’energia.

Riprese, ma una sensazione di disagio lo tormentava: autoderisione e l’attesa del ridicolo da parte degli spettatori. Non riusciva a capire perché, eppure…

C’era un antico film, un classico, in cui un uomo di nome Chaplin veniva legato al suo posto in una catena di montaggio dove eseguiva un lavoro del tutto meccanico in modo perfettamente meccanico, un lavoro che ovviamente avrebbe potuto essere compiuto da alcune camme e un paio di articolazioni. Era una delle commedie più divertenti d’ogni tempo… per quanto tragica. Un lavoro che l’aveva trasformato in una parte d’un complesso meccanismo.

Sudò per tutto il secondo e il terzo atto, in un continuo compromesso con se stesso, esagerando l’interpretazione per riabituarsi e ancora per convincere Feria e Giada che avrebbe potuto farcela, e bene. La recitazione esagerata era necessaria alle prime prove, come tecnica d’apprendimento. Gigioneggiare deliberatamente durante le prove per mandare a mente le battute, poi recitarle in tono più naturale durante lo spettacolo… era un vecchio trucco nelle compagnie di giro, quando bisognava dare un nuovo spettacolo tutte le sere e si avevano soltanto poche ore per provare e imparare le battute. Ma avrebbero capito perché lo stava facendo?

Quando fu finito non c’era più tempo per un’altra prova: a malapena il tempo per un pisolino e un boccone, prima di vestirsi per lo spettacolo.

— Era impossibile, Giada — borbottò. — Ho fatto un pasticcio, so bene di averlo fatto.

— Sciocchezze. Sarai a posto stasera, Thorny. Ho capito cosa stavi facendo e so perché.

— Grazie. Vedrò di darci dentro.

— A proposito dell’ultima scena, lo sparo.

Le lanciò un’occhiata circospetta. — Che c’è ancora?

— La pistola sarà carica stasera, a salve naturalmente. E stavolta dovrai cadere.

— E allora?

— E allora stai attento quando cadi. Non andare sulle fasce di rame. Centoventi volts non ti uccideranno, ma non vogliamo un Andreyev morente che salta in piedi tra un mucchio di scintille. Gli operai toglieranno un po’ di fasce per lasciarti una zona sicura. E un’altra cosa.

— Sì?

— Marka ti sparerà da vicino. Cerca di non scottarti.

— Starò attento.

Fece per andare, poi si fermò guardandolo per qualche momento con la fronte aggrottata. — Thorny, ho una strana sensazione nei tuoi confronti, ma non so bene che cosa.

La fissò con calma, in attesa.

— Thorny, hai intenzione di mandare a monte lo spettacolo?

La sua faccia non fece trasparire nulla, ma qualcosa tremò dentro di lui. Lei sembrava implorare, fiduciosa ma preoccupata. Faceva affidamento su di lui, aveva fiducia in lui.

— Perché dovrei mandare all’aria la recita, Giada? Perché dovrei fare qualcosa del genere?

— Te lo chiedo.

— Va bene, te lo prometto… avrai il migliore Andreyev che io possa permettermi.

Annuì lentamente. — Ti credo. Non era di questo che dubitavo, per l’esattezza.

— Allora, cos’è che ti preoccupa?

— Non lo so. So come ti senti tu di fronte all’autodramma. Ho soltanto avuto la gelida sensazione che tu abbia un asso nella manica. Tutto qui. Mi dispiace. So bene che sei troppo integro per mandare a picco un tuo spettacolo, però. — Si fermò e scosse la testa, scrutandolo con gli occhi neri. Era ancora preoccupata.

— E va bene, volevo fermare lo spettacolo al terzo atto, mostrare alla gente la cicatrice dell’appendice, fare un paio di giochetti con le carte e annunciare che entravo in sciopero. Poi sarei uscito. — Schioccò la lingua verso di lei, con aria offesa.

Arrossì lievemente e rise. — So bene che non faresti niente di tanto spregevole. Faresti quanto sta in te per dare una mazzata all’autodramma, in via generale, però… non c’è niente che tu possa fare stasera in questo senso, salvo che mandare gli spettatori a casa impazziti. Non è roba per te e mi dispiace di averlo pensato.

— Grazie. Smettila di preoccuparti, se perdete della grana non sarà certamente per colpa mia.

— Ti credo, ma…

— Ma che cosa?

Si chinò verso di lui. — Ma hai un’aria troppo trionfante, ecco cos’è! — sibilò e poi gli dette un colpetto sulla guancia.

— Be’, è la mia ultima parte. Io…

Ma se n’era già andata, lasciandolo solo col suo panino e la possibilità di un pisolo.

Il sonno non sarebbe certamente venuto. Giacque, tastando le pallottole calibro 32 nella sua tasca e pensando al colpo che il suo ultimo finale sarebbe stato sulla coscienza del teatro. Il pensiero era piacevole.

Mentre sonnecchiava, lo colpì d’improvviso il pensiero che l’avrebbero chiamato un suicidio. Che idiozia. Pensa alla scossa, all’effetto drammatico, alla reazione del pubblico. I manichini non sanguinano. E poi i titoli: UN ROBOATTORE UCCIDE VECCHIO ATTORE, VITTIMA DEL PALCOSCENICO MECCANIZZATO. E ancora, lo avrebbero chiamato suicidio. Che idiozia.

Ma forse è a questo che pensa anche il paranoico sul davanzale della finestra al ventesimo piano… alla reazione del pubblico. Ogni ferita autoinferta non era forse diretta alla coscienza del mondo?

La cosa lo turbò un poco, ma…

— Quindici minuti all’inizio - gracidò un altoparlante. — Quindici minuti…

— Ehi, Thorny! — Feria lo chiamava irritato. -Torna in camerino, ti stanno cercando.

Si alzò a fatica, guardò il trambusto tra le quinte e poi si avviò con passo strascicato verso i camerini. Una cosa era certa: doveva andare avanti.

La sala era tutt’altro che esaurita. Un terzo degli spettatori si era ripreso i soldi, piuttosto che aspettare uno spettacolo rinviato e con un Andreyev sostituito: un sostituto ignoto o nel migliore dei casi a malapena ricordato, senza indici di preferenza Smithy sulla scritta luminosa dov’era il suo nome. Nonostante questo, la massa del pubblico aveva già pianificato le proprie serate e si era fermata per occupare i propri posti, solo con un represso malumore causato dal ritardo. I clienti dei bagarini che avevano strapagato i loro posti e che non potevano reclamare dal botteghino più della metà della somma spesa erano costretti ad accettare lo spettacolo o rimetterci i soldi senza aver niente in cambio. Arrivarono, muovendosi nervosamente e guardando di continuo gli orologi, mentre dagli altoparlanti una voce continuava a scusarsi e a presentare brani musicali, quasi tutti di compositori russi. E poi, finalmente…

— Signore e signori, abbiamo stasera con noi una delle più ammirate attrici della scena, dello schermo e dell’autodramma, protagonista del nostro dramma di stasera, giovane e affascinante come quando venne resa immortale dalla Smithfield… Mila Stone!

Thornier stava a guardare dall’ombra, le labbra strette, come lei avanzava con grazia nello splendore delle luci della ribalta. Appariva insolitamente pallida, ma i maestri del trucco avevano fatto un buon lavoro; sembrava soltanto un po’ più vecchia del suo manichino, ancora incantevole ma d’una bellezza non più tanto arrogante. I suoi sfavillanti gioielli erano scomparsi, adesso portava soltanto una semplice tunica nera con una profonda scollatura, e i suoi capelli fulvi erano acconciati a forma di turbante, in modo da lasciare allo scoperto il collo grazioso.