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— Sì, certo.

— È qualcosa di molto precario: l’effetto, voglio dire. Se il pubblico comincia a rendersi conto che tu non sei un pupazzo… — Scosse lentamente la testa.

— E se succede?

— Riderebbero. Ti riderebbero in faccia.

Era pronto a tutto ma non a questo. Questo confermava quel tormentoso presentimento che aveva avuto durante la prova.

— Thorny, questo è quello che mi preme veramente. Non m’interessa se tu reciti bene o da cane, finché non scoprono che cosa sei. Non voglio che ti ridano dietro; hai già sofferto abbastanza.

— Non riderebbero se io recitassi come si deve.

— Lo farebbero! Non allo stesso modo, ma lo farebbero. Non capisci?

Rimase a bocca aperta; scosse la testa: non era vero. — Attori umani lo hanno già fatto — protestò. — In provincia, in piccoli teatri, con un Maestro ridotto.

— Hai mai visto roba del genere?

Scosse la testa.

— Io sì. Gli spettatori sanno in anticipo che parte faranno gli umani: così la cosa non li colpisce come se fosse buffa. Non c’è la sorpresa di scoprire qualcosa di incongruente. Stammi a sentire, Thorny… fa’ del tuo meglio, ma non osare di fare meglio di quanto possa un manichino.

Lo riprese l’ondata dell’amarezza. Era questo che aveva sperato? Dare un’interpretazione quanto più meccanica possibile, fare un buon lavoro a livello del Maestro, ma non migliore e soprattutto non diverso, in modo che non se ne possano accorgere?

Notò la sua espressione abbattuta e cercò la sua mano. — Thorny, non odiarmi per avertelo detto. Desidero che tu riesca e penso fosse meglio che tu ti rendessi conto. Credo di sapere cosa c’è di sbagliato. Sei spaventato, profondamente, che loro non ti riconoscano per quello che sei veramente e questo rende la tua interpretazione diversa da quella d’un manichino. Farai meglio ad aver paura che ti riconoscano, Thorny.

Guardandola, si rese conto che era ancora capace di essere la donna che una volta aveva conosciuto e amato. Peggio, desiderava salvarlo dal rendersi ridicolo. Perché? Se si sentiva materna era concepibile che volesse proteggerlo dal furore, dalla critica o dai pomodori marci, ma non dalla perdita di dignità. Il senso materno prospera con la rinuncia della dignità maschile, poiché dà risalto all’immagine del bambino che è nell’uomo.

— Mila…?

— Sì, Thorny.

— Credo di non averti mai capita veramente.

Scosse rapida la testa, quasi irritata. — Caro, tu stai vivendo i tempi di dieci anni fa. Io no, e non voglio neppure. Forse il presente non mi piace granché, ma ci sono dentro e posso cambiarlo solo in piccola parte. Non posso ritrasformarlo nel passato e non lo voglio. — Tacque un momento, studiando il suo viso. — Dieci anni fa nessuno di noi due viveva nel presente; vivevamo in un futuro mitico, magico, meraviglioso. Grande talento, appena in boccio. In quei giorni la nostra vita era fatta di progetti di sogno. Il futuro in cui vivevamo non si è mai avverato: tu non puoi tornare indietro e farlo avverare. E quando un sogno non è più realizzabile, diventa un’illusione. Non voglio vivere in un’illusione. Voglio rimanere ragionevole, anche se questo fa soffrire.

— È stato un peccato che tu sia dovuta venire questa sera — disse seccamente.

Sembrò colpita. — Oh, Thorny, non volevo dirlo in questo modo. E nemmeno con tanta durezza, se… — guardò attraverso il cristallo antiacustico verso la scena, dove il suo manichino stava recitando insieme a Piotr… — se anch’io non avessi dei problemi, e troppi desideri.

— Io vorrei che tu fossi con me là fuori — disse dolcemente. — Senza pupazzi e senza Maestro. So come andrebbe, allora.

— No! Ti prego, Thorny, no.

— Mila, io ti amavo.

— No! — Si alzò di scatto. — Io… Voglio vederti dopo lo spettacolo. Aspettami. Ma non parlare così: soprattutto non qui e non adesso.

— Non posso farci niente.

— Ti prego! Arrivederci per ora, Thorny, e… fa’ del tuo meglio.

Del mio meglio per essere un meccanismo, pensò amaramente, mentre la guardava andar via.

Si voltò a guardare l’azione. C’era qualcosa che non andava, là sul palcoscenico, qualcosa di maledettamente sbagliato. L’interpretazione che il Maestro dava della scena la rendeva in qualche modo sconosciuta. Si accigliò. Rick gli aveva parlato dell’abilità del Maestro nel rimediare, nel mutare le interpretazioni, nel rifare la regia. Era quel che stava accadendo? Il Maestro stava rimediando… alla sua interpretazione?

Il suo attacco era prossimo. Si spostò più vicino al palcoscenico.

Il primo atto era stato un fiasco. Feria, Ferne e Thomas discutevano in un’atmosfera carica di tensione e di fumo di sigarette. Sentì un vivace brontolare, ma non riuscì a distinguere le parole. Giada chiamò un macchinista, gli parlò brevemente e poi lo mandò via. Il macchinista vagò tra la troupe finché trovò Mila Stone, le parlò velocemente facendo dei gesti. Thorny la vide avviarsi a raggiungere il gruppo della produzione, poi si voltò. Si mise fuori vista dietro un velario ripiegato, attendendo la fine del breve intervallo e cercando di non pensare.

— Molto bene, Thorny — disse meccanicamente un costumista e passando gli batté sulla spalla.

Represse a stento l’impulso di prendere a calci il costumista. Prese un copione e finse di ripassare le battute. Qualcuno lo tirò per una manica.

— Giada! — la guardò con aria afflitta, cominciando a scusarsi.

— Lascia perdere — gli disse. — Ne abbiamo già discusso. Diglielo tu, Rick.

Rick Thomas, fermo accanto a lei, sorrise compassionevole e scosse la testa. — Non è tutta colpa tua, Thorny. O non te ne sei neppure accorto?

— Che cosa vuoi dire? — chiese con aria sospettosa.

— Prendi la quinta scena, per esempio — s’intromise Giada. — Supponi che fossero tutti attori umani. Come ti sentiresti per quanto è accaduto?

Chiuse gli occhi per un momento per rivivere la scena. — Sarei probabilmente seccato — disse lentamente. — Probabilmente accuserei Kovrin di rubarmi le battute e Aksinya di avere ammazzato la mia uscita… come scusa per me stesso — aggiunse con un sorriso sforzato. — Ma io non posso accusare i pupazzi. Non possono rubarmi la scena.

— In pratica, possono farlo, vecchio mio — disse il tecnico. E la tua scusa è perfettamente giusta.

— Come?…

— Certamente. Tu hai sbagliato la prima e la seconda scena. Il pubblico ha reagito; e il Maestro reagisce alla reazione del pubblico, rimediando con correzioni all’interpretazione. Lui vede il palcoscenico come un tutto, te compreso. Per quanto riguarda il Maestro, tu sei un manichino suonato e senza nastro, come il pupazzo di Peltier che abbiamo usato nella prima prova. Ti manda soltanto i segnali contenuti nel nastro delle battute, senza interpretazione, poiché non esistono nastri analogici che ti riguardino. Senza il pubblico sarebbe andato tutto bene, ma con le reazioni di un pubblico su cui basarsi comincia a rimediare. E dal momento che non può fare le correzioni su di te le fa sugli altri.

— Non capisco.

— In breve, Thorny, le prime due scene non marciavano. Tu al pubblico non sei piaciuto; allora il Maestro ha cominciato a rimediare rendendo più enfatiche le altre parti: e dando un nuovo carattere a te, attraverso gli altri.

— Un nuovo carattere? E come può farlo?