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— Niente di più facile — interloquì Giada. — Quando Marka dice: «Lo odio: è una bestia», per esempio, può dirlo come se fosse vero oppure come se fosse momentaneamente furiosa con Andreyev. E questo influisce sul modo in cui il pubblico vede te. Gli altri attori influiscono sulla tua parte. Sai bene quanto fosse vero sui vecchi palcoscenici. Be’, è vero anche con l’autodramma.

Li guardò stupito.

— Non potete fermarlo? Voglio dire, rimettere a posto il Maestro?

— Non senza smontare tutta la programmazione e ripartire da capo. L’effetto è cumulativo: più continua a rimediare, più difficile diventa per te; più difficile è per te, più sembri scadente agli spettatori; e più sembri scadente agli spettatori, più tenta di rimediare.

Fissò furioso l’orologio. Meno di un minuto alla prima scena del secondo atto. — Che cosa devo fare?

— Tieni duro! — rispose Giada. — Abbiamo chiamato la Smithfield; in città c’è un ingegnere programmatore e sta per venire qui con un elitaxi. Poi vedremo.

— Può darsi che si riesca a raddrizzarlo, un po’ alla volta — interloquì Rick — inserendo una programmazione truccata sulle reazioni del pubblico e chiudendo il suo circuito in sala. Proveremo, è tutto.

Le luci si accesero per l’inizio del secondo atto.

— Buona fortuna, Thorny.

— Ne avrò bisogno. — Si avviò verso la scena con aria truce.

La cosa nella cabina lo stava guardando. Guardava, misurava e lo trovava insufficiente. Forse, pensò furioso, mi odia anche. Osservava, programmava, regolava e lo stava rovinando.

I visi dei pupazzi, le mani, le voci… gli appartenevano. Il circuito stregato nella cabina li faceva alleare contro di lui. Indubbiamente la cosa lo vedeva come uno di loro, ma che non rispondeva agli impulsi programmati. Forse lo vedeva come un pupazzo difettoso, e cercava così di correggere gli effetti del suo comportamento sbagliato. Ricordò l’antico conflitto tra regista e mattatore, l’attore che non accettava imposizioni… era la stessa cosa, aggravata dall’incapacità di un regista elettronico di capire che certe cose possono accadere. Il mattatore, l’interprete che non si lascia guidare, la cui recitazione scaturisce dalle fonti dell’inconscio senza influenze esterne… i registi erano inclini a odiarlo, anche quando l’interpretazione era stupenda. Un manichino, d’altronde, era il perfetto commediante, l’attore che un regista può manovrare come uno strumento.

Sarebbe stato assai più facile per lui se fosse stato un commediante, forse avrebbe potuto adattarsi. Ma era Andreyev, il suo Andreyev, da quando si era preparato per quella parte. Andreyev era dentro di lui come una seconda anima. Non aveva mai “recitato” un personaggio: era diventato sempre il personaggio. E adesso poteva adattarsi alle necessità della scena soltanto come Andreyev, senza cambiare assolutamente il sentimento della sua interpretazione. Tentarlo, cercare di conformarsi all’azione del Maestro, avrebbe condotto a una maggiore confusione. Eppure, la macchina cercava di imporsi a lui, attraverso gli altri.

Restò impassibile dietro il tavolo, ascoltando freddamente i dinieghi del prigioniero, un rivoluzionario, un incendiario associato alla banda di guerriglieri di Piotr.

— Te l’ho detto, compagno, io non c’entro niente! — gridò il prigioniero. — Niente!

— L’avete interrogato attentamente? — ringhiò Andreyev verso il tenente che sorvegliava il prigioniero. — Ha firmato una confessione?

— Non ce n’era bisogno, compagno. Il suo complice ha confessato — protestò il tenente.

Soltanto, non avrebbe dovuto essere una protesta.

Il tenente l’aveva fatta apparire come qualcosa di mostruoso… estorcere al prigioniero un’altra confessione, magari con la tortura, quando vi erano già prove sufficienti per condannarlo. Le parole erano giuste, ma il significato era stato distorto. Avrebbe dovuto essere una semplice constatazione. Non ce n’era bisogno, compagno, il suo complice ha confessato.

Thorny fece una pausa, rosso dalla rabbia. La sua battuta seguente avrebbe dovuto essere: — Bada che anche questo confessi — ma non l’avrebbe pronunziata. Avrebbe aumentato l’effetto di sorpresa e di protesta provocato dal tenente. Il tenente era un generico e non sarebbe tornato in scena fino al terzo atto: non sarebbe successo nulla a schiacciarlo.

Guardò con aria torva il pupazzo, chiese gelido: — E che ne avete fatto del complice?

Il Maestro non poteva inventarsi battute, né concepire una recitazione a soggetto; il Maestro poteva soltanto interpretare una deviazione come un difetto e cercare di rimediarvi. Il Maestro tornò indietro di una battuta e il tenente ridiede l’attacco.

— Ve l’ho detto… ha confessato.

— È così? — ruggì Andreyev. — L’avete ucciso, vero? Non ha resistito all’interrogatorio, vero? L’avete ucciso!

Thorny, che stai combinando? Nell’auricolare si udì il frenetico sussurrare di Rick.

— Ha confessato — ripeté il tenente.

— Sei agli arresti, Nikolàj! — sbraitò Thorny. — Presentati al maggiore Malin per la punizione. Riporta il prigioniero in cella. — Fece una pausa; il Maestro non poteva proseguire finché non gli avesse ridato l’attacco giusto, ma ora non c’era più pericolo a dire la battuta. — E adesso, bada che anche questo confessi.

— Sissignore — replicò rigidamente il tenente e uscì di scena col prigioniero.

Thorny si divertì a distruggergli l’uscita, gridandogli dietro: — E bada che sopravviva all’interrogatorio!

Il Maestro li fece uscire senza farli più voltare e Thorny fu per un momento molto compiaciuto con se stesso. Colse al volo una Giada, che, nascosta tra le quinte, gli faceva un cenno di vittoria, con le mani giunte sopra la testa. Ma non poteva certamente conquistare la vittoria recitando a soggetto fino all’ultimo.

Più di tutto temeva l’entrata di Marka, il pupazzo di Mila. Il Maestro lavorava per lei, rendendo più nobile la sua parte, giustificando astutamente il suo tradimento, a scapito del personaggio di Andreyev. Non voleva lottare ancora: la parte di Marka era troppo importante per sopraffarla, inoltre sarebbe stato come schiaffeggiare Mila, disturbare l’interpretazione del suo pupazzo.

Il sipario si abbassò; l’arredamento venne cambiato e la scena si trasformò in una stanza di soggiorno. Il sipario si alzò di nuovo.

Sbraitò al telefono: — Basta con gli arresti; dopo il coprifuoco, sparate a vista! — e riagganciò.

Quando si volse, lei era sulla soglia, in ascolto. Scrollò le spalle ed entrò con passo indifferente, mentre lui la fissava sospettoso in silenzio. Era la conclusione dell’inganno: era tornata da lui, ma come spia di Piotr. La sospettava soltanto di infedeltà, non di tradimento. Era un punto cruciale: il Maestro poteva farla agire come una perfida oppure come una traditrice riluttante, facendo apparire Andreyev un bruto. La guardò cautamente.

— Be’… ciao — disse lei con tono petulante dopo essersi aggirata per la stanza.

Brontolò, freddo. Lei continuava a mostrarsi impertinente e distante. Finora era come doveva essere; ma la disputa pericolosa doveva ancora arrivare.

Si avvicinò a uno specchio e cominciò a sistemarsi i capelli scompigliati dal vento. Parlava con tono nervoso, a scatti, chiacchierando di cose futili, nascondendo l’inquietudine di trovarsi di fronte a lui dopo il tradimento. Aveva un’aria furtiva, sofferente, in qualche modo simile alla Mila attuale: il controllo dell’espressione da parte del Maestro era davvero eccezionale.

— Che cosa fai qui? — scoppiò all’improvviso, interrompendo il suo parlare sconnesso.

— Abito ancora qui, o no?

— Te ne sei andata.

— Soltanto perché mi hai detto di andarmene.