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Thornier annuì.

Rick afferrò un nastro e lo agitò verso di lui. — Ma è lei in questa versione, Thorny! Lo sai? Interpreta la parte di Marka.

La risata di Thornier fu breve e spezzata.

Rick arrossì leggermente. — Be’, volevo dire che è il suo manichino che recita.

Thorny guardò con disgusto il Maestro. — Vuoi dire che il tuo Svengali meccanico dirige tutte le parti di quegli zombi gonfiati.

— Oh, smettila, Thorny. Sii amaro verso il mondo se questo ti fa piacere, ma non biasimarmi per quello che il pubblico vuole. E comunque non sono stato io a inventare l’autodramma.

— Non biasimo nessuno. Semplicemente odio questo… questo… — Colpì la base del Maestro con la scopa bagnata d’acqua.

— Tu e D’Uccia — brontolò Rick disgustato. — Solo che D’Uccia lo adora quando funziona bene. È solamente una macchina, Thorny. Perché odiarla?

— Non ho bisogno di ragioni per odiarla — brontolò con aria petulante. — Detesto anche gli elitaxi. Si tratta solo di gusti, tutto qui.

— D’accordo, ma il pubblico ama l’autodramma, per televisione, in rilievo o su un palcoscenico. E hanno quello che vogliono.

— Perché?

Rick soffocò una risata. — Be’, i soldi sono roba loro. L’autodramma è portatile, duplicabile, senza sorprese. E poi è flessibile. Puoi rappresentare Macbeth questa sera, L’anarchico domani e Il re della Luna la sera successiva… tutto nella stessa sala. Non ci sono problemi di umore per gli attori. Nessun problema di collaborazione. Affitti la pubblicità, i manichini e i nastri dalla Smithfield. Teatro in scatola. Sistematizzato, prodotto in massa. Persino a Coon Creek, Georgia.

— Bah!

Rick finì l’operazione di imbobinamento del nastro, richiuse il pannello e ne aprì uno adiacente. Aprì una scatola di cartone e ne tolse un mucchio di nastri avvolti su rulli più piccoli e li posò sulla tavola.

— Sono queste le anime vendute della Smithfield? — domandò Thornier, sorridendo in modo piuttosto bizzarro.

La sedia del tecnico scricchiolò minacciosamente e Rick esplose. — Sai benissimo che cosa sono.

Thornier annuì e si chinò per fissarli meglio, come se ne fosse affascinato. Ne prese uno dal mucchio e sospirò.

— Se mi dici “ohimé, povero Yorick”, ti sbatto fuori di qui! — disse Rick tra i denti.

Thornier lo rimise nel mucchio con un altro sospiro, e si pulì la mano sulla tuta. Temperamento in scatola. L’io degli attori applicato su nastro. Autentici attori una volta e ora dei manichini che li sostituivano sulla scena. I nastri contenevano un complesso di informazioni psicofisiologiche ricavate dopo mesi di controlli fisici e somatici degli attori che avevano firmato un contratto con la Smithfield. Informazioni per le matrici delle personalità incluse nel Maestro. Astrazioni della psiche umana incorporate su vetro, rame e cromo. Le anime che avevano venduto alla Smithfield in cambio di una percentuale, insieme alla loro carne e al sangue imitati dai manichini.

Rick montò un nastro di una delle parti sul perno e incominciò a inserirlo tra i rulli.

— Che cosa accade se tralasci di montare una parte vitale? — chiese Thornier. — Per esempio il nastro di Mila Stone?

— Il manichino interpreterebbe la parte come uno zombie, tutto qui — spiegò Rick. — Né vivacità, né interpretazione. Piatto e monotono come un robot.

— Ma sono dei robot.

— Non esattamente. Marionette controllate dal Maestro, ma comunque degli interpreti. Una volta abbiamo messo in scena Amleto senza l’ausilio di nastri magnetici. Recitarono tutti la propria parte senza espressione, in piatta monotonia. Uno strazio.

— Ah, ah — esclamò Thornier truce.

Rick montò un altro nastro sul perno, formò una nuova combinazione sul quadro e fece correre questo nuovo nastro. — Questo è Andreyev, Thorny… interpretato da Peltier. — Improvvisamente bestemmiò, bloccò il nastro e lo controllò nervosamente, aprì il meccanismo di lettura e lo ispezionò con la lente d’ingrandimento.

— Che cosa c’è che non va? — domandò il custode.

— Il meccanismo di lettura è quasi del tutto consumato. È difficile mantenere le pause esatte. Ho sempre il timore che afferri tutto il nastro e me lo maciulli.

— Non ci sono dei nastri di scorta?

— Sì. Una serie completa in più. Ma il programma va in scena questa sera. — Lanciò un altro sguardo dubbioso al rullo trasportatore del registratore, poi lo richiuse e avviò di nuovo il congegno. Stava rimontando il pannello quando il meccanismo di ricarica s’inceppò. Dall’interno si udì uno strappo. Mormorando un fiume di bestemmie, tolse il contatto e strappò via di nuovo il pannello. Mostrò a Thornier un brandello lacerato di nastro e poi lo scaraventò attraverso la cabina. — Vattene! Menagramo!

— Non prima di aver finito di lavare.

— Thorny, per favore, vuoi chiamarmi D’Uccia? Dovremo far arrivare un nuovo complesso di lettura dalla Smithfield prima di questo pomeriggio. È un gran bel guaio.

— Perché non assumere un attore umano? — domandò Thorny malignamente. Poi aggiunse: — Scusami. Questa verrebbe considerata una perversione per la tua arie, non e vero? Vado a chiamare D’Uccia.

Rick gli gettò contro il rullo con la registrazione di Peltier. Thorny uscì sorridendo e andò a cercare il direttore del teatro. A metà della scala di ferro, si fermò a guardare il vasto palcoscenico che si stendeva dietro il sipario rialzato. Le luci della ribalta erano accese e il palco grigioverde aveva un aspetto pulito e splendente con quella specie di scacchiera formata da strisce di rame. Durante lo spettacolo le strisce venivano elettrificate per rinnovare la riserva di energia dei manichini; questi portavano sotto le suole dei dischi metallici e dei rettificatori alla caviglia. Quando le batterie stavano per esaurirsi, il Maestro faceva muovere i piedi dell’attore di qualche centimetro fino a portarlo a contatto con gli elettrodi del pavimento per una periodica ricarica durante lo spettacolo, dal momento che il manichino abbandonato a se stesso, avrebbe cominciato a ondeggiare e a parlare indistintamente dopo una dozzina di minuti.

Thorny fissò la grande distesa del palcoscenico, che non veniva mai calcato da piede umano durante le rappresentazioni serali. Il gatto siamese di D’Uccia stava facendo tolètta seduto al centro del palcoscenico; lo fissò altezzosamente, sembrò annusare l’aria e poi riprese a leccarsi. Thorny lo guardò per un momento, poi tornò verso Rick.

— Ti spiace dare corrente al palco, Rick?

— Eh? Perché? — fu l’occupato grugnito di risposta.

— Voglio vedere una cosa.

— D’accordo, ma poi vammi a chiamare D’Uccia.

Sentì che il tecnico girava un interruttore. La calma altezzosità del gatto si dileguò istantaneamente; miagolò, si agitò pazzamente, saltando e rotolando in mezzo a deboli scintille; fece un salto mortale oltre le luci del palcoscenico, planando in platea con un certo fragore, poi scappò con il pelo ritto su per le scale verso il suo paradiso, situato sotto la scrivania di Imperio.

— Che diavolo? — sbraitò Rick mettendo fuori la testa dalla cabina.

— Spegni adesso — disse il custode. — D’Uccia sarà qui tra un minuto.

— Sì, con le zanne di fuori.

Thornier andò a finire il solito lavoro di pulizia. Si sentì prendere dalla tristezza. Stava andandosene. Andandosene anche da quest’ultimo umile ruolo che lo teneva legato al teatro. Lo assalì l’improvvisa consapevolezza della propria impotenza: senza speranza. Senza speranza a tal punto da cercare piccole rivincite, come quella di vandalizzare i vasi di fiori di D’Uccia e di tormentare il gatto di D’Uccia: questo perché non vi era alcun nemico reale contro cui lottare.