Abbandonò deciso questa impressione e la escluse dai propri pensieri. Era Ryan Thornier, mai disperato a meno di non desiderarlo. Farò vedere loro almeno una volta chi sono io, pensò, prima di andarmene. Farò in modo che lo ricordino e che non lo dimentichino.
Ma sapeva che l’idea di interpretare un ultimo grande ruolo, un’ultima interpretazione magistrale, non era buona. — Thorny, se tu interpretassi un ultimo grande ruolo — gli aveva detto una volta Rick — non ti resterebbe alcuna ragione per continuare a vivere, vero? — Rick l’aveva detto cinicamente, ma comunque il concetto era giusto. In un certo senso le piacevoli fantasticherie erano, oltre che piacevoli, anche allarmanti.
La piccola donna elegante col cappello ricoperto di piume bianche stava spiegando qualcosa con molta attenzione, con vocali tonde e una precisa pronuncia, al Commediografo di Successo, un tipo promettente, che ascoltava il piccolo e vivace impresario con lo sguardo colmo di timorosa venerazione. — L’autentico realismo, vedi, è il perno di un autodramma — diceva. — Ricordati sempre, Bernie, che la considerazione per gli attori appartiene al passato. Studia il dramma di Roma, dell’antica Roma. Se in un dramma c’era una scena di crocifissione, prendevano uno schiavo per quella parte e lo crocifiggevano. Sulla scena, ma sul serio!
Il Commediografo di Successo rise rispettosamente intorno al suo lungo bocchino. — Così è da qui che è nata la frase: “È fantastico, ma gli attori sono uno strazio”. Devo riscrivere la scena del delitto nel mio La veglia funebre di George. Userò un’accetta, questa volta.
— Oh, Bernie, esagerato! I manichini non sanguinano.
Risero entrambi di cuore. — E sono anche molto cari. Non sono gli attori lo strazio, adesso, ma il bilancio.
— Probabilmente i romani avevano lo stesso problema. Lo terrò a mente.
Thornier li vide, arrivando dal retropalco, diretto al centro della platea: l’impresario e il Commediografo di Successo, giù in prima fila. Erano appoggiati ai braccioli delle loro poltrone e intorno a loro pullulava una folla di tecnici e di personale della produzione. Il momento della prima rappresentazione si stava avvicinando.
La piccola donna agitò con garbo una mano in direzione di Thorny quando lo vide passare lentamente nel corridoio, poi si voltò di nuovo verso il commediografo. — Bernie, sii un tesoro, vammi a prendere qualcosa da bere, vuoi? Ho i crampi allo stomaco.
— Certo. Secco o dolce?
— Oh, secco. Un goccio di scotch in un bicchiere di carta, per favore. C’è un bar alla porta accanto.
Il commediografo annuì con la testa fino quasi a inchinarsi e si avviò lungo la platea. La donna afferrò il custode per la manica quando le passò accanto.
— Hai intenzione di ignorarmi, Thorny?
— Oh, salve, signorina Ferne — rispose educatamente.
Si fece più vicina e mormorò: — Chiamami ancora “signorina Ferne” e ti graffio. — Le vocali tonde erano scomparse.
— D’accordo, Giada, però… — Si guardò attorno, nervoso. Intorno a loro si affollavano i tecnici. Ian Feria, il direttore di scena, li guardava con curiosità dalle quinte.
— Che cosa ti è successo, Thorny? Perché non ti ho più visto? — si lamentò lei.
Fece un gesto con il manico della scopa e si strinse nelle spalle. Giada Ferne gli studiò il viso per un momento poi aggrottò la fronte.
— Perché quell’aria da agonizzante, Thorny? Arrabbiato con me?
Scosse la testa. — Questo lavoro, Giada, L’anarchico, be’… — Guardò infelice il palcoscenico.
Il ricordo la colpì improvvisamente. Sospirò compassionevole.
— Quella tentata ripresa, dieci anni fa. Tu dovevi essere Andreyev. Oh, Thorny, me n’ero dimenticata.
— Non importa. — Atteggiò il viso a un accurato sorriso da martire.
Gli batté amichevolmente una mano sulla spalla. — Ci vediamo dopo la prova, Thorny. Andremo a bere qualcosa e a parlare dei vecchi tempi.
Si guardò in giro e scosse la testa. — Ora hai dei nuovi amici, Giada. A loro non andrebbe.
— Il personale? Sciocchezze! Non sono degli snob.
— No, ma loro vogliono tutta la tua attenzione. Proprio adesso Feria cerca di incontrare il tuo sguardo. Non c’è bisogno di amareggiarli.
— D’accordo, ma dopo la prova ci troviamo nella stanza dei manichini. Scapperò via senza che nessuno mi veda.
— Se vuoi.
— Sì che lo voglio. Thorny, è passato tanto di quel tempo.
Il commediografo tornò col suo goccio di scotch e lanciò uno sguardo di ostile curiosità verso Thornier.
— Che tu sia ringraziato, Bernie — disse Giada con vocali tonde, poi rivolgendosi a Thornier: — Thorny, mi faresti un favore? Ho cercato di bloccare D’Uccia, ma è impegnato da qualche parte con un rappresentante di servorobot. Qualcuno deve correre a prendere un analogico dal deposito. La consegna è stata fatta, ma il camionista ha dimenticato una delle casse d’imballaggio. Ne avremo bisogno per le prove. Potresti…
— Certo, signorina Ferne. Ho bisogno di un ordine di prelievo?
— No, basta che tu firmi la bolla di consegna. E, Thorny, vedi se la nuova parte è già stata inserita nel Maestro. Un’altra cosa… il Maestro ha stritolato il nastro con la registrazione di Peltier. Abbiamo un duplicato, ma ne dovremmo avere due per precauzione.
— Andrò a vedere se ne hanno uno in magazzino — mormorò allontanandosi.
D’Uccia era nel ridotto con il piazzista quando passò. Il direttore del teatro lo vide e sorrise con affettazione.
— …naturalmente con certe speciali caratteristiche — stava dicendo il piazzista. — È un vecchio stabile e non è stato costruito per l’impiego di un custode meccanico, come lo sono invece gli edifici più moderni. Ma noi costruiremo il meccanismo in modo che si adatti al suo teatro, signor D’Uccia. Noi desideriamo fare un buon lavoro mentre un’unità monoblocco non lo farebbe.
— Be’, ora mi dice pure il prezzo, eh?
— Le faremo avere un preventivo domani. Farò venire qui un ingegnere nel pomeriggio per un’ispezione e questa sera mi farà un progetto.
— E quando me la fa ’sta dimostrazione, eh? Quando mi fa vedere come va ’sta macchina lavapavimenti?
Il piazzista esitò, occhieggiando il custode che aspettava poco lontano. — Be’, il robot lavapavimenti rappresenta solo una piccola parte di tutto il servizio, ma… le dirò che cosa faremo. Questo pomeriggio le porterò un complesso tuttofare e potrà darci un’occhiata.
— Vabbène. Così vabbène. Lei me lo porta che poi vediamo.
Si strinsero la mano. Thornier restò fermo in attesa osservando attentamente un insetto che strisciava su una fronda di una palma in vaso, aspettando l’occasione per domandare a D’Uccia le chiavi del camion. Si rese conto dello sguardo trionfante del direttore, ma non diede segno di avere ascoltato il colloquio.
— Svolgeremo un ottimo lavoro per lei, signor D’Uccia. Le sue preoccupazioni saranno ridotte della metà. E, come mi diceva, questo servirà anche a diminuire della metà i conti del dottore. Sì, signore! Un uomo nella sua posizione resta avvilito per la normale inefficienza umana… per l’inefficienza del prossimo. Una volta che lei abbia l’edificio autocustodito non dovrà più preoccuparsi, no, signore!
— Grazie mille.
— Grazie a lei, signor D’Uccia. Ci vediamo più tardi, nel pomeriggio.
Il piazzista se ne andò.
— Allora, lazzarone? — grugnì D’Uccia rivolto al custode.
— Le chiavi del camion. La signorina Ferne vuole che vada a prendere un analogico al magazzino.
D’Uccia gliele gettò. — Hai sentito c’ha detto quel tizio? Lasciamo fare tutto alle macchine, eh? Vuoi sempre la ggiornata libbera, vabbène, e pigliati ’sta ggiornata libbera, anzi presto tutte le ggiornate che vuoi. Ti va bbène così, ragazzo?