Thornier si allontanò in fretta per evitare di far trapelare l’indesiderata rabbia che gli urgeva. — Torno tra un’ora — brontolò e si affrettò per eseguire la commissione, con la mascella che gli tremava per il risentimento. Perché restare ancora per due umilianti settimane? Perché non andarsene via subito? Lasciare D’Uccia ad arrangiarsi con le pulizie finché l’autocustode non sia istallato. Non sarebbe riuscito comunque a trovare un altro lavoro in teatro, quindi la reazione di D’Uccia avrebbe perso ogni valore.
Me ne vado via, adesso, pensò… ma immediatamente seppe che non lo avrebbe fatto. Trovava difficile spiegarselo, però quando pensava al momento decisivo in cui si sarebbe trovato libero di guardarsi intorno per un lavoro decente e una vita migliore, sentiva un brivido di paura difficile da spiegare.
Il lavoro di custode gli aveva reso appena da farlo vivere in un stanza al quarto piano, dove cucinava da solo i suoi magri pasti e scriveva i ricordi dei vecchi tempi, però l’aveva tenuto vicino ai residui vaganti di qualcosa che amava.
“Teatro” lo chiamavano. Non il teatro, come lo era per la vittima del bagarino, per la massaia frequentatrice di matìnées o per il provinciale reverente: soltanto “teatro”. Non era un luogo, non era un lavoro, non era il nome di un’arte. “Teatro” era una condizione del cuore e dell’animo umani. Giada Ferne era teatro; e così Ian Feria. Anche Mila, povera ragazza, prima che si mettesse con la Smithfield. Alcuni l’avevano, altri no: ai vecchi tempi chi non possedeva questo dono ben presto ne usciva. Ma quelli che lo avevano, continuavano ad averlo, anche dopo che il teatro era stato divorato dall’avvento della tecnologia. Ed erano rimasti. Alcuni di loro, come Giada, Ian e Mila si erano adattati al cambio, avevano tratto profitto dalla prostituzione del palcoscenico, guadagnandoci ulcera e coscienza sporca. Ma erano sempre teatro e, poiché lo erano, anche Thornier vi restava, strofinando i pavimenti sui quali loro passavano e sentendo che comunque appartenevano ancora al teatro. Ora stava andandosene. E sentiva dentro di sé ribollire l’antica amarezza. L’amarezza era stata cronica e passiva, e ora minacciava di diventare attiva e acuta.
Se solo potessi fargli vedere un’ultima interpretazione! pensò. Un’ultima grande parte…
Ma questo pensiero lo riportava al fantastico piano di vendetta, il piano che gli tornava spesso alla mente, mentre girava per il teatro deserto. Ma la vendetta non andava bene.
E il piano era soltanto un sogno a occhi aperti. Eppure… non avrebbe avuto mai più un’altra occasione.
Strinse la mascella con aria arcigna e si diresse al magazzino della Smithfield.
L’impiegato del magazzino aveva trasportato il manichino imballato verso l’uscita e stava aspettando Thornier quando questi entrò nel deposito. Lo fece rotolare dal muro sopra un carrello e il custode lo aiutò a sollevare l’imballaggio a forma di bara fino sul bancone.
— Non lo porti ancora sul camion — brontolò l’impiegato intorno al grosso mozzicone di sigaro. — Non ci sono manichini nuovi e lei deve firmarmi una ricevuta assicurativa.
— Quale ricevuta assicurativa?
— Per il caso di cattivo funzionamento. Se il manichino si guasta durante lo spettacolo voi non potete citare la Smithfield. È la prassi normale per l’affitto dei manichini usati.
— E se io non firmo?
— Niente firma, niente manichino.
— Ah. — Ci pensò su un momento. Evidentemente l’impiegato l’aveva preso per uno della produzione. La sua firma non avrebbe avuto alcun valore, ma si stava facendo tardi e Giada aveva fretta. Dal momento che in ogni caso quella ricevuta non avrebbe avuto valore, prese il modulo.
— Aspetti — disse l’impiegato. — È meglio che dia un’occhiata prima, per vedere che rischi corre. — Afferrò una leva e la passò sotto la correggia metallica dell’imballaggio. La correggia si spezzò con un rumore stridente. — È stato imballato esageratamente — continuò l’impiegato. — Gli è stato cambiato il fluido solenoide, un nuovo lavoro di cosmesi. Niente di veramente preoccupante. Alcuni punti consumati nell’imbottitura e un dito del piede che manca. Ma comunque è giusto che ci dia un’occhiata.
Terminò di rompere i legami del coperchio e poi si girò verso un quadro di controllo murale. — Non abbiamo qui un Maestro completo — disse mentre chiudeva un interruttore a coltello — ma abbiamo i trasmettitori di controllo e alcuni nastri magnetici. È sufficiente per provare un manichino.
Da dietro il pannello l’apparecchio prese vita. Mentre Thornier aspettava con impazienza, l’impiegato mise a punto diversi quadranti.
— Vediamo… — mormorò l’impiegato. — Penso che sia meglio cominciare con la scena di Frankenstein. — Abbassò un interruttore.
Dall’interno della cassa a forma di bara venne un ronzio soffocato. Thornier osservò nervoso. Il coperchio si mosse e cominciò a sollevarsi. Apparve una mano di donna che scostò il coperchio. Il ronzio divenne più forte. Il coperchio cadde di lato, trattenuto soltanto dalle corregge metalliche. La donna si mise seduta e sorrise al custode.
Thornier sbiancò in viso. — Mila! — sussurrò.
— Non fa venire i brividi? — sogghignò l’impiegato. — Adesso la scena della sbronza.
— No…
L’impiegato abbassò un altro interruttore. Il manichino si alzò lentamente, castamente nudo come quello di una vetrina. Sempre sorridendo a Thorny, il manichino ebbe un sussulto e digrignò i denti.
— La fermi! — urlò con voce rauca.
— Che ti piglia, amico?
Thorny udì scattare un altro interruttore. Il manichino si stirò graziosamente e sbadigliò. Si sdraiò di nuovo nella cassa, chiuse gli occhi e incrociò le mani sul seno. Il ronzio tacque.
— Che le rode? — brontolò l’impiegato, sbattendo di nuovo il coperchio sulla cassa. — Sta male o che cosa?
— La… la conoscevo — ansimò Ryan Thornier. — Ero abituato a lavorare… — Si scosse con rabbia e afferrò l’imballaggio.
— Aspetti, le do una mano.
La rabbia gli risvegliò nuove forze. Alzò senza aiuto la cassa, la mise sul carrello e poi la caricò sul camion. Dopo tornò indietro per scarabocchiare il suo nome sul modulo assicurativo.
— Lei se la prende troppo calda — brontolò l’impiegato. — È meglio che si calmi, davvero, meglio che si calmi.
Thornier, mentre si inseriva con il camion nel fiume del traffico, imprecò a bassa voce. Forse Giada aveva pensato che fosse divertente mandarlo a prendere il manichino di Mila. Giada ricordava come era andata tra loro due… se pure si era data la pena di pensarci. Thornier e Stone… una coppia che aveva costantemente richiamato ai vecchi tempi l’attenzione di giornalisti pettegoli. Voci di fidanzamento, voci di un matrimonio segreto, voci di litigi e riconciliazioni, di divisioni e riunioni, e alcune di queste voci erano state abbastanza vere. Forse Giada aveva pensato che fosse veramente un’idea geniale mandarlo a ritirare il manichino.
Ma no… la rabbia gli sbollì mentre percorreva il viale… lei non ci aveva pensato. Probabilmente si era sforzata di non pensare mai più ai vecchi tempi.
Di nuovo la tristezza gli ripiombò addosso, sostituendo la rabbia. Era ancora ossessionato da quella sensazione di orrore provata nel vederla alzarsi come un cadavere risvegliato e sorridergli. Mila… Mila…
Erano stati bene insieme, e male anche. Piccole parti e fagioli mangiati in un appartamento gelido. Parti di primo piano e bistecche da Sardi’s. E poi… amore? Era proprio questo? Ci pensò a disagio. Un’attrazione ipnotica l’uno per l’altra, forse, nella reciproca intossicazione del loro successo… ma non era stato necessariamente amore. L’amore era calma, unicità e durata, e lo si paga dedicandovi la propria vita: Mila non aveva voluto pagare. Li aveva calpestati. Se n’era andata alla Smithfield e aveva acquistato la sicurezza sacrificando i princìpi. C’era un nome per definire quello che aveva fatto. «Crumiro» dicevano.