Выбрать главу

Cacciò nell’altra scatola il nastro di Peltier, l’etichetta di Granger e la bolla di consegna. Poi guidò il camion fuori dal parcheggio e si inserì nel traffico caotico come un pazzo, fidando nel radar antiurto per uscirne sano e salvo. Mentre attraversava il ponte buttò fuori dal finestrino il nastro Peltier che finì nel fiume. E così non vi era più modo di tornare indietro.

Giada e Feria erano seduti nell’orchestra e stavano guardando l’ultimo atto della prova con un Andreyev imbambolato. Quando Thorny fu al loro fianco, Giada finse di tergersi la fronte dal sudore.

— Grazie a Dio, sei tornato! — gli sussurrò mentre le mostrava gli attesi pacchetti. — Corri tra le quinte e portali a Rick, nella cabina di controllo, ti spiace? Sto impazzendo, Thorny.

— Mi dispiace, signorina Ferne. — Temendo che la sua colpevole agitazione gli si leggesse in faccia, scivolò velocemente dietro le quinte e consegnò i pacchetti a Thomas, nella cabina di controllo. Il tecnico era così intento a controllare il Maestro durante la prova che fece soltanto un breve cenno con la testa e un gesto di saluto.

Thorny si rifugiò in vecchi corridoi polverosi e camerini fuori uso, dove ora si ammucchiavano cianfrusaglie e stracci dei giorni andati. Doveva farsi forza, doveva smetterla di tremare. Girò senza meta nelle zone deserte dell’edificio aprendo vecchie porte per sbirciare in oscuri cubicoli dove grandi dive si erano agghindate in altri tempi, in altre serate. Ora erano pieni di bauli e specchi rotti, tele cerate e manichini rotti. Vi aleggiavano leggeri odori, odori inquietanti, sudore, cerone, un vago profumo che ancora impregnava i muri. Muffa e polvere, l’aroma del tempo. I suoi passi risuonavano sordamente in quelle stanze abbandonate mentre gli echi smorzati delle prove giungevano attraverso le pareti: l’isterica preghiera di Marka, la volgare risata di Piotr, gli stivali in marcia delle guardie rivoluzionarie, un’esplosione di musica verso la fine della scena.

Si voltò bruscamente e si avviò verso il palcoscenico. Era inutile nascondersi così. Doveva comportarsi normalmente, fare quel che faceva di solito. Il nastro manomesso di Peltier non avrebbe provocato il disastro fin dopo la fine della prima prova, quando Thomas l’avrebbe inserito nel Maestro, rimontando la macchina e preparandola per l’inizio della seconda prova. Fino a quel momento doveva agire con naturalezza, ma dopo?…

Dopo, le cose sarebbero dovute andare come aveva progettato. Dopo, Giada sarebbe dovuta venire da lui, come pensava che avrebbe fatto. Se non l’avesse fatto, allora avrebbe fallito, rovinato tutto in modo maldestro e senza alcun vantaggio.

Scivolò attraverso la cabina elettrica dove i trasformatori ronzavano in sordina, fornendo energia al palcoscenico. Si fermò vicino all’ingresso a guardare l’inizio della scena terza, del terzo atto. Andreyev, il pupazzo di Peltier, era solo in scena e passeggiava truce nel suo appartamento mentre gli effetti sonori guidati dal Maestro fornivano il cupo brontolìo della turba in strada e il lontano crepitìo d’una mitragliatrice. Dopo qualche minuto, si accorse che i movimenti di Andreyev non erano “truci” ma semplicemente metodici e inerti. Il manichino, privo del nastro, eseguiva quanto prescritto dal copione, come un automa, senza alcuna interpretazione. Sentì dalla platea dei brevi scoppi di risa da parte di qualcuno della produzione e, dopo aver osservato l’interpretazione da zombie di Andreyev in una scena colma di tensione, si scoprì anch’egli a sogghignare sommessamente.

Improvvisamente il manichino ambulante guardò dalla sua parte, col volto impassibile e alzò i pugni all’altezza del viso.

— Aiuto — disse in tono di monotona conversazione. — Ivan, dove sei. Dove? Certamente sono già arrivati; devono arrivare. — Parlava quietamente, senza inflessioni. Si premeva indifferente i pugni contro le tempie, camminando meccanicamente.

A qualche passo di distanza, due manichini che erano irrigiditi dietro le quinte ripresero improvvisamente vita. Dall’immobilità spettrale di fantocci da vetrina, improvvisamente, a un impulso di comando del Maestro, si scossero. I muscoli, sacchetti di plastica pieni di polvere magnetica a sospensione oleosa avvolti in elastiche matasse di cavi, simili a solenoidi flessibili, si irrigidirono e si gonfiarono sotto la carne di plastica espansa, lavorando spasmodicamente al ritmo pulsante dei policromatici comandi u.h.f. del Maestro. Sui loro visi si formò un’espressione di paura e di tensione. Si piegarono, si irrigidirono, si guardarono attorno e poi irruppero in scena respirando affannosamente.

— È arrivata, compagno, è arrivata! — urlò uno dei due. — È arrivata con lui, con Boris!

— Cosa? Lo ha catturato? — fu l’indifferente risposta.

— No, no, compagno. Siamo stati traditi. Sta con lui. È una traditrice, ci ha venduti a loro.

Non vi fu alcun sentimento nella replica senza interpretazione di Andreyev, neppure quando sparò al cuore del latore di queste cattive notizie.

Man mano che la scena si svolgeva, Thornier ne era sempre più affascinato. I manichini si muovevano con grazia, i loro movimenti sinuosi erano più fluidi e armoniosi di quelli umani: sembravano privi di ossa. La proporzione tra massa ed energia muscolare nei loro arti era stata attentamente studiata per donare la levità della danza a ogni loro movimento. Né meccanici robot sferraglianti, né fantocci malfermi, quei manichini sopportavano uno schema motorio ed espressivo che avrebbe rapidamente affaticato un attore umano; il Maestro coordinava quanto succedeva sulla scena come non sarebbe stato possibile a nessun gruppo di umani, composto di esseri individuali e ragionanti in modo indipendente.

Accadde come sempre. Dapprima guardava con un brivido la Macchina che si muoveva facendo le veci della carne e del sangue, il Meccanismo che aveva detronizzato l’Arte. Ma gradualmente quella sensazione di freddo si sciolse e venne preso dallo spettacolo e gli attori non gli apparvero più come macchine. Viveva la parte di Andreyev, ne sussurrava le battute e conosceva tutti loro: Mila e Peltier, Sam Dion e Peter Repplewaite. Partecipava alla loro tensione, digrignava i denti anticipando le battute più difficili, malediceva sommesso l’inerte Andreyev e dimenticava di notare il tenue sfrigolio delle scintille quando i piedi dei manichini passavano sulle strisce di rame, di quando in quando succhiando energia per tenere gli accumulatori quasi al massimo della carica.

Essendo tanto assorto, notò appena il ronzio e il raspare e il fruscio alle sue spalle, che diventavano sempre più forti. Udì vicino un quieto borbottare, ma la distrazione lo fece soltanto accigliare, senza che distogliesse l’attenzione dalla scena.

Poi un sottile spruzzo d’acqua gli solleticò le caviglie. Qualcosa di fradicio e spugnoso gli urtò il piede. Si girò di scatto.

Un rilucente ragno metallico, alto quasi un metro, gli si avvicinò lentamente muovendosi su sei zampe, allungando due pinze prensili. Gli si avvicinava tintinnando e spargendo sul pavimento un leggero getto di liquido che veniva subito risucchiato dalla proboscide spugnosa. Con una delle pinze alzò un bidone da circa quaranta litri vicino alla sua gamba, vi spruzzò sotto, asciugò e rimise a posto il bidone.

Thornier si riscosse con un lamento, scavalcò la cosa e barcollò sul pavimento umido insaponato. Scivolò e finì per terra. Il ragno sfregò con lena il pavimento al limite del palcoscenico, poi cambiò direzione e ritornò verso Thornier.

Gemendo, questi cominciò a rialzarsi, sulle mani e sulle ginocchia, lo colpì la risata gorgogliante di D’Uccia. Guardò in alto. Il paffuto direttore e il piazzista di elettrodomestici lo sovrastavano: il piazzista sogghignava, D’Uccia gli faceva eco.

— Eccolo qua il mio ragazzo, eccolo qua! Sta sempre a guarda’ lo spettacolo e non mi fa pulizia e poi vuole la ggiornata libbera. Eccolo qua, è proprio lui. — D’Uccia si chinò a dare un leggero colpo con la mano alla carrozzeria del ragno. — Ehi, ragazzo - disse rivolgendosi di nuovo a Thornier — devi conoscere il mio nuovo ragazzo. Questo qua, e lui non sta a guarda’ lo spettacolo com’a te.