Si rialzò in piedi borbottando e livido in viso. D’Uccia lo osservò più da vicino e il ghigno gli si smorzò. Indietreggiò di un passo. Thornier lo fissò per un attimo e poi si voltò per andarsene. Voltandosi per poco non urtò il manichino di Mila Stone, lo evitò e fece per passare oltre.
Poi si sentì gelare.
Il manichino di Mila Stone era sul palcoscenico, a recitare l’ultimo atto. E quest’altro sembrava più vecchio e più smunto, con un’espressione di profonda sorpresa quando alzò lo sguardo su di lui. Una mano scattò verso la bocca.
— Thorny…! — Un sussurro spaventato.
— Mila! - Nonostante lo spettacolo, urlò questo nome, spalancandole le braccia. — Mila, che meraviglia!
Poi si accorse che lei si scostava dalla sua tuta inzuppata: e non era contenta di vederlo.
— Thorny, che piacere — riuscì a mormorare, tendendogli cautamente la mano. Una mano risplendente di gioielli.
Gliela strinse per un vuoto attimo, la fissò, poi si allontanò in fretta sentendosi un nodo alla gola. Ora poteva darci dentro. Ora poteva andare in fondo e persino rallegrarsi nel mettere in atto il suo piano contro tutti loro.
Mila era venuta ad assistere alla “prima” del suo manichino nell’Anarchico come se fosse lei stessa a recitare. Farò in modo, pensò, che questo non sia uno spettacolo noioso.
— No, no, nooo! — si sentì la monotona protesta dell’inerte Andreyev nel finale. I colpi della pistola di Marka, e il manichino di Peltier si afflosciò sul palcoscenico; eccettuato un breve e trionfante chiarimento, il dramma era praticamente concluso.
Al rumore dello sparo, Thornier si fermò, guardando oltre la spalla con un sorriso tirato, con gli occhi che lucevano nel suo viso da falco. Poi svanì tra le quinte.
Si allontanò da loro non appena le fu possibile e girò per tutto il retropalco fino a quando lo trovò nel magazzino del reparto costumi. Solo, stava frugando nel contenuto di un vecchio baule mormorando qualcosa in tono nostalgico. Trasalì e lasciò ricadere nel baule un vecchio cappello a cilindro pieghevole e una scatola di cartucce a salve. Mentre si raddrizzava infilò le mani in tasca.
— Giada! Non mi aspettavo…
— Che venissi? — Con uno stanco sospiro, si lasciò cadere su una vecchia sedia a sdraio polverosa, chiuse gli occhi e cominciò a farsi vento, con un programma. Si sfilò le scarpe e mormorò: — Banda di nevrastenici. Li odio! — Assunse un’aria disgustata e si abbandonò ai ricordi della giovinezza. Una ragazzina che aveva fatto parte della troupe con Thornier e con tutti gli altri… l’attrice Giada Ferne, che aveva elemosinato qualche particina, che aveva perseguitato le agenzie e conquistato le sue parti attraverso interminabili prove e aveva tremato di panico prima che si alzasse il sipario, come tutti gli altri. Ora era una donnina vivace, dagli occhi furbi, un’ombra di grigio alle tempie e rughe profonde agli angoli della bocca. Ma come lasciò svanire quella maschera di donna d’affari, lo sguardo furbo e le rughe furono soltanto stanchezza.
— Quindici minuti per ritornare normale, Thorny — mormorò, guardando l’orologio come per controllare il tempo.
Thornier sedette sul baule, cercando di rilassarsi. Sembrava che lei non avesse notato il suo disagio, oppure era troppo stanca per attribuirgli un motivo qualsiasi. Se l’avesse scoperto, l’avrebbe scuoiato e sbattuto fuori dall’edificio per le orecchie: forse avrebbe chiamato la polizia. Era una piccola cosa, ma anche le granate incendiarie sono piccole. Quello che sto per fare non ti danneggerà, Giada, si disse. Farà un gran chiasso e non ti piacerà, ma non ti danneggerà e non manderà a fondo lo spettacolo, neppure.
Lo faceva per il gusto dello spettacolo, quello d’una volta, quello che entrambi conoscevano e amavano. E in questo senso, si disse ancora, lo faceva per lei non meno che per se stesso.
— Com’è andata la prova, Giada? — chiese con noncuranza. — A parte Andreyev, intendo.
— Superba, davvero superba — rispose lei macchinalmente.
— Sul serio, intendo.
Aprì gli occhi, fece una smorfia con la bocca. — Come sempre. Di un gigionismo nauseante e perfettamente diretta per una folla di masticatori di gomma dalla borsa piena. Una folla che ama il gigionismo in modo da non doversi affaticare a capire quel che succede. Una folla che non vuole sforzarsi a cercare dei sentimenti o un significato. Vuole che il significato gli venga sbattuto in faccia, così da non doverlo cercare. Sono stufa.
La guardò un attimo, sorpreso. — Ci credo — borbottò con finto compatimento.
Ripiegò i talloni nudi sotto la sdraio e si abbracciò le gambe, posando il mento sulle ginocchia; poi ammiccò. — Mi odi perché produco questa roba, Thorny?
Ci pensò su un momento, poi scosse la testa. — L’andata in scena mi rattrista a volte, ma non ti biasimo per questo.
— È qualcosa. Qualche volta vorrei cambiar posto con te. Qualche volta desidererei essere una sguattera e lavare i pavimenti per D’Uccia, davvero.
— Niente da fare — rispose aspro. — I parenti del Maestro si stanno occupando anche di questo.
— Lo so. Ho sentito. Grazie a Dio, sei senza lavoro. Adesso potrai darti da fare altrove.
Scosse la testa. — Non so proprio dove. Non so fare altro che recitare.
— Sciocchezze. Posso trovarti un lavoro domani.
— Dove?
— Con la Smithfield. Incremento vendite. Stanno assumendo un bel po’ di vecchi attori in quel settore.
— No. — Una risposta secca e gelida.
— Non occorre. C’è qualcosa di nuovo. L’azienda è in sviluppo.
— Ah.
— Autodramma da casa. Un palcoscenico di un metro e venti in ogni stanza di soggiorno. Manichini in miniatura, alti sedici centimetri. Servizio di Maestro centralizzato. Il grande teatro a domicilio per cavo coassiale. Basta chiamare la Smithfield per telefono e fare la richiesta. Non è una buona idea?
La fissò gelido. — La cosa più grande in campo teatrale dopo Sarah Bernhardt — suggerì con voce atona.
— Thorny! Non essere perfido con me!
— Scusa. Ma che c’è di tanto nuovo nell’avere il teatro in casa? L’autodramma ha sbancato la tv già da molti anni.
— Lo so, ma questo è diverso. Un vero teatro in miniatura. I bambini ne andranno matti. Ma ci vorrà una forte propaganda per farglielo prendere.
— Spiacente, ma mi conosci abbastanza bene.
La donna si strinse nelle spalle, sospirò stancamente e chiuse di nuovo gli occhi. — Sì, lo so. Possiedi l’integrità del grande artista. Sei un mattatore. L’ulcera dei registi. Non puoi interpretare una parte senza viverla e non puoi viverla a meno che tu non ci creda. E allora vai avanti e crepa di fame. — Parlava con ira, ma lui sapeva che dietro quelle parole c’era un’ammirazione piena d’invidia.
— Starò benissimo — brontolò, aggiungendo mentalmente: dopo la recita di stasera.
— Posso fare niente per te?
— Certo. Dammi una parte. Sostituirò qualche manichino suonato.
Lo fissò con sguardo tagliente, esitando. — Sai? Credo proprio che lo faresti!
Si strinse nelle spalle. — Perché no?
Fissò con aria pensosa una catasta di casse, scuotendo i capelli scuri. — Mmm! Che spettacolo sarebbe… un vero attore, in incognito, che recita in un autodramma.