ANDREA CAMILLERI
IL MEDAGLIONE
© 2005 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano
I edizione Piccola Biblioteca Oscar giugno 2005
ISBN 978-88-04-55027-3
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presso Mondadori Printing S.p.A.
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Questo racconto è stato scritto da Andrea Camilleri per l’Arma dei Carabinieri e pubblicato nel 2005 nel calendario della Benemerita.
Il maresciallo Antonio Brancato, comandante la Stazione dei Carabinieri di Belcolle, cangiando il foglio del calendario, come faciva ogni matina appena trasuto nel suo ufficio, vitti che era il ventisei di maggio, vale a dire che mancavano quattro giorni al compleanno di Giacomina, la sua unica sorella, maritata a Genova e matre di tre figli. Doviva provvidire subito, prima che qualche facenna improvisa gli faciva passare la cosa di mente.
Avvertì il piantone che nisciva e che sarebbe tornato passata una mezzorata.
Andò da Cosimo, il tabaccaro e sciglì una delle cinco cartoline postali, leggermente ingiallute, che da anni raffiguravano il paìsi da diverse angolature. A taliarlo in cartolina e dall’alto, come aviva fatto il fotografo, Belcolle pariva un paìsi grazioso, da vacanza estiva: la disposizione delle case, che non arrivavano a duecento, dava all’abitato una forma di barca, con la prua stritta e fina verso i quasi duemila metri di Pizzo Carbonara e la poppa chiatta e larga verso il lontanissimo mare di Cefalù, una barca assurdamente arenata supra una montagna verde di boschi e di pascoli.
D’inverno però la situazione cangiava, la nivi ci mittiva nenti a cummigliare, a seppellire case, arboli, strate sutta a un bianco uniforme, mentre un vento gelido e crudele impoppava dalle Madonie per giorni e giorni.
Ma il paìsi non si racchiudeva tutto in quelle casuzze fotografate nella cartolina, si espandeva per chilometri attraverso rade abitazioni di viddrani, pastori, boscaioli, sperse al limite dei boschi, sui costoni della montagna, in qualche tratto di valle.
Una volta era stato costretto, per effettuare un arresto, ad acchianare fino a una casupola a Pizzo Stella e ancora arricordava la jeep che non andava più né avanti né narrè, bloccata da un mare di nivi, la lunga marcia tutta in salita, il friddo che spurtusava le ossa a malgrado che il corpo era in movimento e faticava. Fortuna che i paisani erano pirsone a posto, quiete, forse tanticchia troppo mutanghere tra di loro, ma si sa che la genti di montagna è di scarsa parola, non ama dare cunfidenza agli stranei. Curiosamente però con lui, che straneo lo era di certo, i belcollesi parlavano, e come!
E quella confidenza, della quale giustamente tra sé si gloriava, se l’era guadagnata, come dire, sul campo. In cinco anni che si trovava lì era arrinisciuto a sapiri quasi tutto di tutti, intervenendo in questioni, liti, dispute che gli vinivano presentate in forma non ufficiale per aviri un parere, un giudizio, un orientamento. «Marescià, vinissi a mettiri ’u bonu…» Mettere il buono: ossia dire la parola giusta, pacificare, risolvere, appianare, fare in modo che la bilancia non penda troppo da una parte o dall’altra.
«Ecco perché si chiama Stazione!» si disse un giorno che nel suo ufficio erano trasute e nisciute, proprio come in una stazione ferroviaria, una decina di persone per domandargli consigli, pareri, istruzioni su come comportarsi.
Scrisse la cartolina, l’impostò nella buca allato alla tabaccheria, si diresse all’edicola. Papuzzo, l’edicolante, aviva già pronto il quotidiano dell’isola che lui era solito accattare.
«Fammi vedere macari tutti i giornali che ti sono arrivati.»
Papuzzo lo taliò strammato per l’insolita richiesta, ma non replicò.
Supra a uno dei quotidiani, il maresciallo attrovò quello che arcava: una fotografia, bastevolmente grande, del novo Presidente, Scalfaro, nominato il giorno avanti.
Tornato in ufficio, ritagliò la fotografia e la mise al posto di quella di Cossiga, il precedente Presidente. Avanti che gli arrivava la foto ufficiale, chissà quanto tempo sarebbe passato e mantenere la foto scaduta non gli pareva cosa giusta.
Era fatto accussì, un omo preciso al quale piaciva che tutto stava al posto indovi doviva stare.
La matina appresso, passando davanti alla chiesa, notò il carro funebre e due corone. S’informò e seppe che era morta per un improvviso attacco di cuore, a sittant’anni passati, Marta Barbaro, una fimmina che lui mai aviva accanosciuto di pirsona in quanto abitava, col marito Francesco inteso Ciccino, in una di quelle casuzze foramano, irraggiungibili d’inverno e poco praticate d’estate. Ciccino, che aviva una grossa mandria di pecore e quindi non se la passava tanto malo, non scinniva quasi mai in paìsi.
Chiuso e scorbutico, non aviva amici e il fatto che dal matrimonio non erano vinuti figli aviva accentuato i lati certo non gradevoli del suo carattere.
A Belcolle aviva un cognato, Pietro, che si era maritato con Gasparina, sorella di quattro anni più picciotta di lui, ed era l’unica pirsona di tutto il paìsi col quale scangiava qualchi avara parola. Questo era tutto quello che il maresciallo sapiva della coppia.
Gli parse però giusto aspittare sul sagrato la fine della cerimonia e, quanno la cassa venne messa supra il carro, andò a stringere la mano a Ciccino. E mentre notava che il vidovo aviva l’occhi perfettamente asciutti, contemporaneamente liggì in fondo a quell’occhi stessi una sorta di taliata d’armalo ferito, uno stupito dolore come per aver dovuto patire una punizione incomprensibile. E si rese macari conto che Ciccino, a malgrado che lui fosse in divisa, non l’aviva manco raccanosciuto, gli aviva stretto meccanicamente la mano, la testa persa altrove, darrè i suoi pinseri.
«Povirazzo!» lo compatì il maresciallo mentre andava verso la Stazione.
Quella morte di sicuro viniva a sconvolgergli l’esistenza. Non si passano più di quarant’anni, notte e giorno, ’nzemmula a un’altra pirsona e doppo, all’improviso, non si può restare soli nella solitudine di una casa solitaria come se niente fosse capitato.
Tutte le sue abitudini di necessità sarebbero state stravolte, cangiate, aggiungendo sofferenza a sofferenza, pirchì spesso le abitudini possono addivintare forza e conforto. E il maresciallo, che era scapolo, l’accanosceva benissimo il valore delle abitudini. In fondo, si spiava certe volte quanno pinsava alla sua vita, non è vero che non ti sei voluto maritare perché avevi scanto di dover rinunziare alle tue abitudini? E a questa domanda non dava mai risposta.
Della morte di Marta Barbaro ne risentì parlare doppo una simanata, mentre si trovava nel salone di Pasqualino il varberi.
Ogni quinnici giorni immancabilmente il maresciallo si faciva dare da Pasqualino una ripassata ai capelli: a parte il fatto che gli piaciva essere sempre in ordine (la varba se la faciva tutte le matine col rasoio a mano, se era costretto a restare con la varba longa si sentiva malato), il salone era una gran miniera di notizie. Era giornalmente frequentato dal professor Lumia e dal geometra Albanese, quasi ottantini, che passavano ore e ore a intrattenersi coi clienti di Pasqualino e che, immancabilmente, erano sempre fra loro in totale disaccordo su qualsiasi cosa.
«La sa la novità, maresciallo?» esordì il geometra Albanese.
«No. Quale novità?»
«Due giorni appresso il funerale di Marta Barbaro, la sorella di Ciccino, accompagnata dal marito, è andata a trovarlo per vidiri come stava.»