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— Ma se io sarò morto… — Little Tib cercò di metter ordine nei suoi pensieri. — Tu e mamma non avete altri figli.

— Non capisci, vero?

Suo padre gli mise un braccio attorno alle spalle, e si chinò finché i loro volti si sfiorarono. Ma in quell’istante Little Tib ebbe l’impressione che nel volto di suo padre ci fosse qualcosa di sbagliato. Alzò le mani a toccarlo, e quel contatto gli diede un ansito.

— Non avresti dovuto farlo — disse lui.

Little Tib mosse le dita sulle guance dell’uomo che fingeva di essere suo padre. Il volto di lui era nuovamente di legno, duro e freddo.

— Adesso sono un uomo del Presidente; non volevo che lo sapessi, perché pensavo che ti avrebbe sconvolto. Il Presidente sta seguendo la situazione personalmente.

— Mamma è ancora a casa? — domandò Little Tib, e intendeva la nuova casa.

— No, fa parte di altro dipartimento: il G-7. Ma la vedo ancora, ogni tanto. Adesso è ad Atlanta.

— Mi sta cercando?

— Non me lo ha detto.

Nel petto di Little Tib, proprio nel punto duro dove le costole si riunivano al centro del torace, qualcosa cominciò a gonfiarsi ed a comprimergli i polmoni come un palloncino. Gli rendeva quasi impossibile respirare, e gli stringeva la gola impedendogli di pronunciare una sola parola. Dentro di sé gridò disperatamente che quella non poteva essere la sua vera madre, e che quell’uomo non era il suo vero padre. Sua madre e suo padre, quelli veri, erano stati la madre e il padre che lui aveva avuto nella vecchia casa. E avrebbe tenuto loro nei suoi ricordi, per sempre. La pioggia gli cadeva fredda sulla faccia, aveva il naso pieno di muco; fu costretto ad aprire la bocca per respirare, ma anch’essa era piena di liquido: saliva che gli colò lungo il mento e lo fece vergognare di sé.

Poi le lascrime furono un torrente caldo che gli inondò le guance intirizzite. Sentì la maschera di legno di Indra cadere al suolo e rimbalzare da qualche parte alla base del palco.

Di nuovo alzò le mani al volto dell’uomo, e sentì che era tornato a essere quello di suo padre, ma la bocca di lui disse: — Little Tib, non riesci a capire? È per la Carta della Riserva Federale. È per quella maledetta Carta. È per il fatto di non avere denaro e nessun lavoro, e dover passare tutta la vita come un maledetto cane randagio. Io l’ho avuta soltanto per merito tuo… impegnandomi a darti la caccia. Siamo stati condizionati a farlo: ipnosi profonda e condizionamento anti-impulsi, sanno loro come fare… ma prima di tutto è stato per quella dannata Carta. — E mentre pronunciava quelle parole Little Tib udì il fruscio della spada di Indra che veniva lentamente raccolta dal legno del palco. Balzò giù e fuggì via, senza sapere dove andava e incurante di poter sbattere contro qualcosa.

Quello su cui andò a sbattere, da lì a poco, fu il corpo di Nitty. Addosso a lui non c’erano più odore di sudore e di fuoco di legna: erano stati spazzati via dalla pioggia; ma dava ancora la stessa sensazione di contatto, e anche la sua voce era la stessa quando esclamò: — Ah, eccoti qua! Ti ho cercato dappertutto. Credevo che qualcuno ti avesse portato via con sé per levarti dalla pioggia. Dove sei stato? — Sollevò Little Tib e se lo mise a sedere su una spalla.

Lui gli affondò le mani nei capelli umidi per sorreggersi. — Sul palcoscenico — disse.

— Sempre sul palco? Be’… — Nitty camminava svelto e a passi lunghi, facendo oscillare al suo ritmo il corpo di lui. — Giuro che quello è l’unico posto dove non ho pensato di cercarti. Credevo che te la fossi filata via in fretta in cerca di un posticino asciutto. Ma forse avevi paura di cadere, è così?

— Sì — disse Little Tib. — Avevo paura di cadere giù. — Correndo nella pioggia la cosa che gli aveva bloccato il petto s’era sgonfiata; ora si sentiva vuoto dentro, e debole come se non avesse più ossa in corpo. Due volte fu sul punto di scivolare giù dalla spalla di Nitty, ma ogni volta le grosse mani di lui si sollevarono a trattenerlo.

Il mattino dopo una donna dal profumo gradevole venne dalla scuola per lui. Little Tib era ancora a letto quando la sentì bussare alla porta; ad aprirle andò Nitty, e lei disse: — Buongiorno. So che avete qui un bambino cieco.

— Sì, signora — rispose Nitty.

— Mr. Parker, il nuovo sovrintendente in carica, mi ha chiesto di venire per condurlo a scuola personalmente il primo giorno. Io sono la signorina Munson. Insegno alla classe dei bambini ciechi.

— Non sono sicuro che lui abbia un vestito adatto per la scuola — mormorò Nitty.

— Oh, di questi tempi vengono con indosso qualunque cosa — disse la signorina Munson. Poi vide Little Tib, che era sceso dal letto nel sentire la porta aprirsi, e commentò: — Capisco quel che vuol dire. È vestito per una recita?

— Quella di ieri sera — disse Nitty.

— Ah, io non c’ero, ma ne ho sentito parlare.

Little Tib s’accorse in quel momento d’indossare ancora la specie di gonna che gli avevano dato; poi la tastò e notò che era invece qualcos’altro: una sottile tovaglia di lana, asciutta. Ma aveva sempre la collana, e un braccialetto di metallo a un polso.

— Ne ha un altro, ma è davvero malridotto.

— Ho paura che dovrà indossarlo lo stesso — disse la signorina Munson. Nitty lo portò nel bagno, gli tolse la tovaglia e i due monili, e lo rivestì con il suo vecchio abito. Poi la signorina Munson lo condusse fuori dal motel e gli aprì la portiera della sua piccola auto elettrica.

— Mr. Parker ha riavuto il suo vecchio lavoro? — chiese Little Tib mentre la macchina girava fuori dal parcheggio del motel in strada.

— Riavuto? — si stupì la signorina Munson. — Non sapevo che lo avesse già svolto in passato. Però ho capito che è estremamente qualificato nei programmi educativi. E quando stamattina hanno scoperto che il computer era guasto, lui ha presentato le sue credenziali e si è offerto di aiutarci. Mi ha chiamato verso le dieci e mi ha pregato di occuparmi di te, ma soltanto adesso ho potuto lasciare la scuola.

— È mezzogiorno, vero? — disse Little Tib. — Fa troppo caldo per essere mattino presto.

Trascorse il pomeriggio nell’aula della signorina Munson con altri otto bambini ciechi, mentre una macchina gli faceva muovere una mano su dei puntini sporgenti da un foglio e gli diceva cosa fossero. Quando la scuola fu terminata e poté udire frotte di ragazzini cicalanti passare nel corridoio esterno, una donna più anziana e corpulenta della signorina Munson venne a prelevarlo, e lo portò in un edificio dove c’erano altri bambini, maggiori di lui e tutti dotati della vista. Cenò con loro. La donna grassa s’irritò quando lui, senza accorgersene, spinse fuori dal piatto alcune fette di bietole in insalata. Quella notte dormì in un lettuccio stretto.

Nei tre giorni successivi la routine fu la stessa. Al mattino la donna grassa lo portava a scuola, alla sera veniva a prelevarlo. A casa di lei (Little Tib non riuscì più a ricordare il suo nome, in seguito) c’era un televisore, e una volta finita la cena i bambini avevano il permesso di guardarlo.

Il quinto giorno di scuola sentì la voce di suo padre in corridoio. Qualche istante dopo l’uomo entrò nell’aula della signorina Munson insieme a un impiegato della scuola che sembrava importante.

— Questo è Mr. Jefferson — dise l’uomo della scuola all’insegnante. — È del Governo. Lei deve affidargli in custodia uno dei suoi studenti. Ha un George Tibbs, qui?

Little Tib sentì una mano di suo padre poggiarglisi su una spalla. — È lui — disse l’uomo. Usciti dal portone della scuola s’incamminarono sul marciapiede. — C’è stato un contrordine, figliolo. Devo portarti a Niagara: là sarai esaminato.