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— Può farcela, Mr. Parker. Guardi com’è snello.

— E tu lo faresti? — chiese Mr. Parker.

Little Tib inghiottì un boccone. — Che cosa?

— Faresti una cosa per noi?

— Penso di sì.

— Nitty, accendi il fuoco — disse Mr. Parker. — Per questa sera non possiamo andare più avanti.

— E tanto varrebbe non andare da nessuna parte — borbottò Nitty.

— Vedi, George — disse Mr. Parker. — La mia autorità è stata temporaneamente sospesa. Qualche volta me lo dimentico.

Nitty fece udire una risatina, più lontano di dove Little Tib credeva che fosse. Doveva essersi mosso molto silenziosamente.

— Ma quando mi verrà restituita, potrò fare per te tutto quel che ho detto; metterti in una classe speciale per ciechi, ad esempio. Questo ti piacerebbe, George?

— Sì. — Alla sua sinistra, lontano, Little Tib poté udire il richiamo di un succiacapre e il rumore di Nitty che faceva legna.

— Sei scappato da casa, George?

— Sì — disse ancora Little Tib.

— Perché?

Little Tib scosse le spalle; era di nuovo sul punto di piangere. Qualcosa gli stringeva la gola, e i suoi occhi si riempirono di lacrime.

— Credo di sapere perché — disse Mr. Parker. — Forse potremo fare qualcosa in merito.

— Eccoci qua! — esclamò Nitty. Rovesciò a terra il suo fastello di legna, più o meno di fronte a Little Tib.

Più tardi, quando fu buio, Little Tib si distese al suolo con metà della coperta di Nitty sopra di sé, e l’altra metà sotto. Lì accanto il fuoco scoppiettava. Nitty disse che il fumo avrebbe tenuto lontano le zanzare. Little Tib si premette le nocche delle dita sugli occhi e vide lampi gialli e rossi balenare come un fuoco vero. Premette ancora e apparve una pepita d’oro su uno sfondo azzurro. Quelle furono le sole immagini che riuscì a far comparire per un po’, e ogni volta, nel richiamarle, ebbe paura che non sarebbero venute. Dall’altra parte del fuoco Mr. Parker emetteva il lento e pesante respiro di chi dorme.

Nitty si accostò a Little Tib, gli tirò la coperta fino al mento e gliela rimboccò attorno. — Così va meglio — disse Little Tib.

— Verrai a Martinsburg con noi — disse Nitty.

— Io sto andando a Sugarland.

— Dopo. Perché vuoi andare là?

Little Tib cercò di parlargli di Sugarland, ma non trovò le parole. Infine disse: — A Sugarland loro sanno chi sei.

— Uh, suppongo che sarebbe troppo tardi per me. Anche se scoprissi che qualcuno sapeva chi ero, non tornerò a esserlo più.

— Tu sei Nitty — disse Little Tib.

— Proprio così. E uscivo molto con le ragazze di quelle parti. Ma sai cosa dicevano? Dicevano: tu sei il custode della scuola, no? Oppure: tu sei quello che lavorava per Buster Johnson. Nessuna di loro sapeva chi ero. Gli unici a saperlo erano i ragazzini.

Little Tib sentì il fruscio del vestito di Nitty che si alzava, poi il lieve scalpiccio delle sue scarpe quando si allontanò. Si chiese se Nitty intendesse stare sveglio per tutta al notte, ma infine udì che si sdraiava.

Suo padre lo stava tenendo per mano. Erano scesi dal treno che li aveva portati in città, e camminavano lungo una delle strade principali. Lui ci vedeva. Sapeva che non avrebbe dovuto notare quel particolare, ma lo notava, e in qualche posto dietro questa consapevolezza sapeva anche che se si fosse svegliato avrebbe smesso di vederci. Guardò dentro le vetrine e vide grosse bambole vestite di pelliccia, e ogni abito sembrava inzuppato di luce. Girò lo sguardo sulla strada e poté vedere dozzine di auto passare come grossi insetti dai colori brillanti. — Di qua — disse Big Tib. Entrarono in un oggetto di vetro che li trasportò attorno e poi dentro un edificio, poi in un ascensore interamente in vetro che si arrampicò su per la parete come una formica. — Dovremmo comprare uno di questi — Little Tib, — così non saremmo costretti a fare le scale.

Alzò lo sguardo e vide che suo padre stava piangendo. Allora fu lui a mettere la sua carta nella macchina, poi sedette e osservò le luci colorate. La macchina era un uomo vestito di bianco che si tolse gli occhiali e disse: — Noi non sappiamo chi sia questo bambino, ma certamente non è nessuno. — Suo padre disse: — Guarda ancora la luce più brillante, Little Tib. — E qualcosa nella sua voce lo informò che l’uomo vestito di bianco era molto più forte di lui. Guardò la luce e cercò di non cadere.

E si svegliò. Era così buio che per un minuto si chiese dove fossero finite le luci colorate. Poi ricordò. Girò su se stesso e protese le mani dalla parte del fuoco finché non riuscì ad avvertirne il calore. Ora lo sentiva anche: crepitava e schioccava ancora, ogni tanto. Gli volse le spalle e tornò a distendersi come prima. Passò un treno, e dopo un poco udì il verso di un gufo.

Poteva vederci anche lì. Qualcosa dentro di lui gli disse quanto era fortunato a vederci due volte in una stessa notte. Poi dimenticò di pensarci e guardò i fiori. Erano grandi e rotondi, crescevano su lunghi steli, avevano petali gialli e il centro marrone, e quando non li fissava direttamente giravano e giravano. Loro potevano vederlo, perché tutti giravano la corolla a osservarlo, e quand’era lui a guardarli si fermavano.

A lungo andò avanti camminando fra i fiori. Pian piano essi divennero alti quanto le sue spalle.

Poi la città scese giù come una nuvola e si poggiò su una collina di fronte a lui. Appena fu a contatto del suolo fece finta d’essere sempre stata lì, ma Little Tib poteva sentirla ridere sotto i baffi. Aveva una cerchia di mura verdi, e al di là di quei bastioni c’erano torri, molto alte e anch’esse verdi, che si sarebbero dette di vetro.

Little Tib si avvicinò di corsa e fu quasi subito di fronte a una delle porte. I battenti erano altissimi, ma giusto poco più su della sua testa c’era una finestrella attraverso cui il guardaportone lo interrogò. — Voglio vedere il re — disse Little Tib. E il guardaportone si sporse ad afferrarlo con una mano robusta, lo tirò dentro attraverso la finestra e lo mise a terra accanto a sé. — Devi metterti questi — disse, e gli mostrò un paio di occhiali giocattolo come quelli che lui aveva visto una volta fra gli strumenti del dottore. Ma quando glieli mise sul naso essi non furono più occhiali, soltanto linee dipinte sul suo volto, circoli intorno agli occhi uniti da un segnetto ricurvo. Il guardaportone gli mise dinanzi uno specchio, e lui sperimentò l’improvvisa sconcertante sensazione di guardare il proprio volto.

Un momento più tardi stava già camminando per la città. Le case avevano giardini sui lati… giardini che risalivano verticalmente lungo i muri esterni, cosicché gli alberi sporgevano in fuori come pennoni. L’acqua nelle vaschette degli uccelli non si rovesciava mai, finché qualche passero non vi si poggiava. Allora una fine spruzzata di goccioline cadeva nella strada come pioggia.

Anche il palazzo reale aveva mura, benché fatte di alberi forniti di mani. Little Tib oltrepassò un portale formato da elefanti inginocchiati e vide una lunghissima rampa di scale. Era così immensa e alta che non sembrava esserci nessun palazzo: soltanto le scale che salivano a perdita d’occhio fra le nuvole. Il re stava scendendo lungo di esse, molto lentamente. Era una donna, bellissima, e per quanto non le assomigliasse neppure minimamente Little Tib seppe che era sua madre.

Aveva visto tante cose durante il sonno che quando si svegliò dovette fare uno sforzo per ricordare perché era così buio. Da qualche parte, nel fondo della sua mente, c’era ancora l’idea che svegliarsi significava luce, mentre dormire era il buio, e non già il contrario. Nitty disse: — Dovresti lavarti la faccia. Puoi trovare l’acqua senza difficoltà?

Little Tib stava ancora pensando al re-donna, e alle vesti che la facevano sembrare addobbata come un albero natalizio, ma andò a lavarsi. Si gettò acqua sul volto e sulle braccia, e intanto pensò se fosse il caso di parlare a Nitty di quel sogno. Ma prima che avesse finito ogni cosa era sfumata via, eccetto la faccia del re.