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— Camminava nell’aria… — ansimò una donna. — E ballava!

— Questo bambino deve venire con me — esclamò il Dr. Prithivi. — Toglietevi di mezzo, per favore. — Afferrò Little Tib per un polso. Nitty però lo sollevò di nuovo e se lo mise a cavalcioni sulle spalle, con la testa fra le gambe. Lui mise le mani fra i folti capelli di Nitty e vi si afferrò. Altre mani si stavano allungando verso di lui; quando lo raggiungevano si limitavano però a sfiorarlo, come se non osassero fare di più.

— Ti metto giù — disse Nitty poco dopo. — Bada a non battere la testa. — Poi sotto i suoi piedi ci furono gli scalini dell’autobus, e il Dr. Prithivi lo aiutò a salire.

— Devi essere presentato al Dio — disse l’uomo. L’interno del veicolo era caldo e soffocante, e vi stagnava un odore dolciastro e opprimente. — Ecco qua. Adesso devi pregare. Hai qualcosa per fare un’offerta?

— No — disse Little Tib. La gente lo aveva seguito all’interno dell’autobus.

— Allora prega soltanto. — Il Dr. Prithivi doveva avere un accendisigaro: Little Tib ne sentì lo scatto. Poi ci fu il Ooooh! di meraviglia di quelli che erano entrati.

— Colui che ora vedete è Deva — disse loro il Dr. Prithivi. — Poiché non siete abituati a Lui, la prima cosa che notate è che Egli ha sei braccia. È per questo motivo che io porto questa croce, anch’essa fornita di sei bracci. Ma Deva è anche in rapporto con la cristianità, poiché come vedete in una mano tiene una croce a due bracci. Nelle altre (comincerò dalla seconda e farò il giro) stringe la mezzaluna dell’Islam, la Stella di Davide, un’immagine del Buddha, un fallo, e una spada katana, che io ho scelto a rappresentare lo scintoismo.

Little Tib cercò di pregare, come il Dr. Prithivi aveva richiesto. Per un verso era conscio di ciò che aveva fatto quando s’era messo a ballare con il leone, ma per l’altro no. Perché non era precipitato? Immaginò cos’avrebbe potuto provare se fosse andato a spaccarsi la testa sulle rocce in fondo al burrone, e fu scosso da un tremito.

Ricordava benissimo l’aspetto delle rocce. A forma di patata ma molto più grosse, dure e grigie. Era perduto in una landa rocciosa, dovunque si levavano cupe muraglie di pietra e non vi cresceva neppure un filo d’erba. Si fermò all’ombra di uno di quei monoliti per proteggersi dal calore; riusciva a vedere una parete rocciosa davanti a sé, oltre la giogaia di macigni riarsi, ma stavolta la consapevolezza di godere di nuovo della vista non lo rallegrò. Aveva sete, e indietreggiando nell’ombra si accorse che alle sue spalle c’era il vuoto. L’ombra diventava sempre più scura e sembrava sprofondare nelle viscere della montagna. S’avviò in quell’oscurità, e allorché l’ultimo barlume di luce diurna scomparve dietro di lui si ritrovò a essere di nuovo cieco.

La caverna (ora capiva che quella era una caverna) s’allungava interminabilmente nella roccia. Malgrado l’assenza della luce del sole a Little Tib parve che si facesse sempre più calda. Poi da qualche luogo davanti a sé udì provenire un tramestio, come se una quantità di sassi fossero stati rovesciati sul terreno roccioso e continuassero a rimbalzare attorno. Il rumore era strano, ma Little Tib si sentiva stanco e sedette, limitandosi ad ascoltarlo.

Come se quell’atto fosse stato un segnale si accesero delle torce: prima una sulla sinistra della caverna, quindi un’altra sulla parete opposta. Alle sue spalle una grata di sbarre s’abbassò con fragore, e due grottesche figure simili a ragni si mossero verso di lui. I loro corpi erano piccoli e grassocci, avevano gambe e braccia come rami secchi, facce grinzose e folli dai collerici occhi strabuzzati, masse di fantomatici capelli torreggiavano sulle loro teste, esibivano baffi simili ai sensori di insetti notturni e barbe a tre punte, le quali sembravano dotate di vita propria e si torcevano qua e là come serpenti. Quegli insoliti individui portavano accette dal lungo manico, indossavano vesti rosse e avevano le più larghe cinture di cuoio che Little Tib avesse mai visto. — Fermo! — gridarono. — Stop, smetti, trattieniti e arresta te stesso. Stai sconfinando nel reame del Re degli Gnomi!

— Mi sono fermato — rispose Little Tib. — E non posso arrestare me stesso perché non sono un poliziotto.

— Questo non è quel che ti abbiamo chiesto — lo rimbrottò uno degli individui dal volto accidioso.

— Ma è un insulto — sbottò l’altro. — Noi siamo Poliziotti del Regno, lo sai bene, ed è tuo dovere unirti all’esercito.

— Nel tuo caso — continuò il primo gnomo, — ci sarà la squadra di disciplina.

— Vieni con noi! — esclamarono entrambi. Lo afferrarono per ie braccia e cominciarono a trascinarlo sul sentiero che serpeggiava fra le stalagmiti.

— Lasciatemi — supplicò Little Tib. — Non sapete neppure chi sono.

— E neppure ci importa di saperlo.

— Se fossero qui Nitty e Mr. Parker vi aggiusterebbero loro.

— Non potrebbero aggiustare nessuno, perché non siamo rotti. E ora ti porteremo dinanzi al Re degli Gnomi.

Attraversarono una tortuosa serie di caverne dove l’unica luce era quella degli occhi degli gnomi, ed altre più vaste dal pavimento fangoso e piene di echi, al centro delle quali scorreva un rigagnolo. Dapprima Little Tib pensò che tutto fosse piuttosto immaginario, ma le cose diventavano sempre più reali a mano a mano che procedevano, come se gli gnomi assorbissero solidità e realtà da quel calore sotterraneo, e infine lui stesso dimenticò che fuori esistevano altri luoghi, e quel che dicevano gli gnomi non gli parve più né buffo né fantasioso.

La caverna del Re degli Gnomi era illuminata vivamente, e sulle pareti brillavano gemme e pepite. Gli arazzi erano d’oro, non di stoffa dorata ma d’oro vero, ed il Re sedeva a gambe incrociate su un grosso cuscino trapunto di diamanti. — Tu sei sconfinato nel mio dominio — disse. — Come ti giustifichi? — Il suo aspetto fisico era identico a quello degli altri gnomi, benché fosse più magro e basso.

— Mi affido alla vostra pietà — disse Little Tib.

— Allora sei colpevole?

Little Tib scosse il capo.

— Devi esserlo. Solo i colpevoli supplicano la mia pietà.

— Credevo che voi perdonaste gli sconfinamenti — osservò Little Tib, e appena l’ebbe detto tutte le luci che illuminavano la sala del trono si spensero. Le sue guardie cominciarono a imprecare, e lui sentì il fruscio delle loro accette che nel buio fendevano l’aria alla ricerca della sua testa.

Corse via, pensando che poteva nascondersi dietro uno degli arazzi d’oro, ma le sue mani protese non riuscirono a trovarlo. Allora continuò a fuggire a caso, finché dopo un po’ fu certo di non essere più nella sala del trono. Era su! punto di fermarsi allorché vide una debole luce, cosi fioca che per un poco gli parve soltanto uno scherzo degli occhi, come i bagliori che scorgeva premendovi le dita sopra. Questo è il mio sogno, si disse, e posso creare delle luci dovunque io voglia metterle. Benissimo allora, voglio la luce del sole, e quando sarò uscito ci saranno Nitty e Mr. Parker accampati con me da qualche parte, in un bel posto accanto all’acqua fresca di un ruscello, ed io sarò capace di vedere.

La luce si fece più grande e luminosa; aveva il tono dorato dei raggi del sole.

Poi Little Tib vide degli alberi, e cominciò a correre. Stava passando di corsa fra le loro forme verdi quando capì d’un tratto che non erano affatto alberi veri, e che la luce proveniva da essi: il cielo sopra di lui era una nuda volta di roccia. Si fermò, allora. I tronchi e i rami degli alberi erano d’argento, le foglie erano d’oro, l’erba sotto i suoi piedi non era erba bensì un tappeto di gemme verdi, e uccelli i cui occhi erano rubini autentici volavano fra quella vegetazione… solo che non erano uccelli veri, ma giocattoli. Nitty e Mr. Parker non c’erano, e neppure il ruscello.