Se Lyubov avesse fatto rapporto di avere visto Selver a Tuntar, Dongh e gli altri si sarebbero allarmati. Avrebbero potuto fare pressioni per tentare di catturare Selver e di riportarlo indietro per processarlo.
Il Codice Coloniale proibiva di portare in giudizio un membro di una società planetaria per avere infranto le leggi di un’altra, ma la Corte Marziale scavalcava questo tipo di distinzioni.
Potevano processare, condannare e fucilare Selver. Riportando da New Java Davidson, per fare da testimone. Oh, no, pensò Lyubov, rimettendo il dizionario nello scaffale stracolmo. Oh, no, pensò, e poi non ci pensò più. E così effettuò la sua scelta senza neppure accorgersi di averla fatta.
Inoltrò un breve rapporto, il giorno seguente. Diceva che a Tuntar le cose procedevano come sempre, e che lui non era stato né allontanato né minacciato. Era un rapporto assai tranquillizzante, ed era il meno accurato che Lyubov avesse mai scritto.
Venivano omesse tutte le cose importanti: la non apparizione della donna-capo, il rifiuto di Tubab di salutare Lyubov, il gran numero di stranieri in città, l’espressione della giovane cacciatrice, la presenza di Selver…
Naturalmente, quest’ultima era un’omissione intenzionale, ma per tutto il resto il rapporto si atteneva rigorosamente ai fatti, pensò Lyubov; lui aveva semplicemente omesso talune impressioni soggettive, così come deve fare ogni scienziato. Ebbe un feroce mal di testa mentre scriveva il rapporto, e uno ancora peggiore quando lo consegnò.
Sognò molto, quella notte, ma non poté ricordare il sogno il mattino seguente. A notte fonda, il secondo giorno dopo la sua visita a Tuntar, lui si svegliò, e nell’ululato isterico delle sirene d’allarme e nei tonfi delle esplosioni fronteggiò, alla fine, ciò che si era rifiutato di vedere. Lyubov fu l’unico uomo di Centralville che non venne colto di sorpresa. In quel momento seppe che cos’era: un traditore.
Eppure, neanche ora, non era chiaro nella sua mente che si trattava di un’incursione degli Athshiani. Era il terrore nella notte.
La sua baracca era stata ignorata, dato che si trovava nel proprio spiazzo, lontano dalle altre case; forse gli alberi che la circondavano l’avevano protetta. Il centro della città era completamente in preda alle fiamme. Perfino il cubo di pietra del Quartier Generale bruciava dall’interno, come un forno spaccato. Là dentro c’era l’ansible, il prezioso collegamento.
C’erano fuochi anche in direzione del deposito degli elicotteri e del campo d’atterraggio. Dove avevano preso gli esplosivi? E i fuochi, come avevano fatto a scoppiare tutti insieme? Tutti gli edifici affacciati sui due lati della Strada Principale, costruiti in legno, bruciavano; il rumore dell’incendio era terribile.
Lyubov corse verso i fuochi. L’acqua scorreva sulla strada; pensò in un primo momento che provenisse da un idrante, poi si accorse che la condotta proveniente dal fiume Menend si rovesciava inutilmente al suolo, mentre le case bruciavano con quel pauroso ruggito risucchiante.
Come avevano fatto? C’erano le sentinelle, c’erano sempre sentinelle in jeep al campo d’atterraggio… Colpi: raffiche, le vacue chiacchiere di una mitragliatrice. Tutt’intorno a Lyubov c’erano piccole figurette che correvano, ma corse in mezzo a esse senza badare loro.
Era davanti all’Ostello, adesso, e vide una delle ragazze ferma sulla soglia, col fuoco che le guizzava alla schiena e la via della fuga aperta davanti a lei. Ma non si muoveva. Lyubov le gridò, poi attraversò il cortile per raggiungerla e le strappò le mani dagli stipiti a cui si afferrava nel panico: la tirò via con la forza dicendo gentilmente: — Vieni, cara, vieni.
La ragazza venne via, ma non abbastanza in fretta. Mentre attraversavano il cortile, la facciata del piano superiore, bruciando dall’interno, cadde lentamente verso di loro, spinta dalle travi del tetto che crollava. Assi e travi caddero come frammenti di una granata; l’estremità infuocata di una trave colpì Lyubov e lo gettò a terra disteso. Giacque con la faccia in giù, nel lago di fango illuminato dal fuoco. Non vide la piccola cacciatrice coperta di pelo verde balzare sulla ragazza, farla cadere a terra sulla schiena, tagliarle la gola. Ormai non poteva vedere più nulla.
6
Selver
Quella notte non ci furono canti. Solamente grida e silenzi. Quando le navi volanti bruciarono, Selver esultò, e lacrime gli spuntarono agli occhi, ma nessuna parola alla bocca. Distolse lo sguardo, in silenzio; il lanciafiamme era pesante nelle sue mani: si accinse a guidare nuovamente il gruppo entro la città.
Ciascun gruppo di persone dell’Ovest e del Nord era guidato da un ex schiavo come lui: uno che avesse servito gli umani alla Centrale e conoscesse gli edifici e le vie della città.
Molte delle persone che erano venute per l’attacco quella notte non avevano mai visto la città degli umani; molte di loro non avevano mai visto un umano. Erano venute perché seguivano Selver, perché erano spinte dal cattivo sogno e solamente Selver poteva insegnare loro a padroneggiarlo.
Ce n’erano centinaia e centinaia, uomini e donne; avevano atteso in profondo silenzio nel buio e nella pioggia, tutt’intorno al perimetro della città, mentre gli ex schiavi, due o tre alla volta, facevano quelle cose che, a loro giudizio, occorreva fare per prime: spaccare la conduttura dell’acqua, tagliare i fili che portavano la luce della Casa del Generatore, fare irruzione nell’Arsenale e saccheggiarlo.
Le prime morti, quelle delle guardie, erano avvenute in silenzio, mediante armi da caccia: cappio, coltello, freccia; molto rapidamente, nel buio. La dinamite, rubata tempo prima, nella notte, al campo dei boscaioli quindici chilometri più a sud, venne messa nell’Arsenale, nella cantina dell’edificio del Quartier Generale, mentre i fuochi vennero appiccati in altri luoghi; poi suonò l’allarme, i fuochi scoppiarono e sia la notte che il silenzio fuggirono.
La maggior parte del rumore di tuono e d’alberi caduti della fucileria veniva dagli umani che si difendevano, poiché solamente gli ex schiavi avevano preso armi dall’Arsenale e le avevano usate; tutti gli altri rimasero con le lance, i coltelli e gli archi. Ma era stata la dinamite, collocata e accesa da Reswan e da altri che avevano lavorato come schiavi nei campi dei tagliaboschi, a fare il rumore che aveva conquistato ogni altro rumore, a far scoppiare le pareti del Quartier Generale e a distruggere gli hangar e le navi.
C’erano circa millesettecento umani nella città quella notte, e circa cinquecento di essi erano femmine; si diceva che tutte le femmine umane fossero laggiù in quel momento, e questo era il motivo che aveva spinto all’azione Selver e gli altri, anche se non si erano ancora radunate tutte le persone che desideravano partecipare all’attacco. Un numero di uomini compreso tra quattromila e cinquemila era giunto attraverso le foreste all’Incontro di Endtor, e da lì alla città, a quella notte.
I fuochi bruciavano alti, e l’odore dell’incendio e del macello era cattivo.
Selver aveva la bocca secca e la gola dolorante, e perciò non poteva parlare, e avrebbe desiderato bere dell’acqua. Mentre guidava il suo gruppo lungo il sentiero centrale della città, un umano giunse di corsa incontro a loro, stagliandosi gigantesco sullo sfondo del buio e il bagliore dell’aria satura di fumo.
Selver sollevò il lanciafiamme e premette sulla lingua dell’arma, proprio mentre l’umano scivolava nel fango e cadeva annaspando sulle ginocchia. Nessun sibilante getto di fiamma corse fuori dalla macchina, si era tutta consumata nel bruciare le navi aeree che non erano chiuse nell’hangar. Selver lasciò cadere la macchina pesante. L’umano non era armato, ed era maschio.
Selver cercò di dire: — Lasciatelo fuggire — ma la sua voce era debole, e due uomini, cacciatori dei boschi di Abtan, erano già corsi davanti a lui, mentre parlava, brandendo lunghi coltelli. Le grosse, nude mani cercarono di afferrarsi all’aria, poi ricaddero immobili. Il grosso corpo giacque in un mucchio informe sul sentiero.