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Ormai erano alla fine della scorta di marijuana, e lui stesso non aveva fumato nel corso degli ultimi due giorni. Ma la sigaretta non riuscì a dargli alcuna soddisfazione. La notte era coperta e nera, umida, tiepida, con un odore come di primavera. Ngenene gli passò davanti, camminando come un pattinatore sul ghiaccio, o anzi come un robot montato su ruote; nel bel mezzo di un passo scivolante, si girò con somma lentezza e fissò lo sguardo su Davidson, che era fermo sotto il porticato del bungalow, nella poca luce proveniente dalla porta d’ingresso. Era un manovratore di seghe elettriche, un omone.

— La fonte della mia energia è collegata al Grande Generatore, non posso venire spento — disse con voce priva di inflessione, fissando Davidson.

— Torna nella tua baracca e dormici sopra! — disse Davidson, con quella sua voce simile a una sferza che nessuno disobbediva mai, e dopo un momento Ngenene si allontanò, scivolando attentamente, ponderoso e leggiadro.

Troppi suoi uomini usavano gli allucinogeni in modo sempre più pesante. Ce n’era un mucchio, ma quella roba era per boscaioli che si rilassavano la domenica, non per soldati di un piccolo avamposto abbandonato su un mondo ostile. Non avevano tempo per esilararsene, per sognare.

Era meglio chiudere a chiave le droghe. Ma alcuni dei ragazzi si sarebbero potuti spezzare. Be’, che si spezzassero pure. Non puoi fare la frittata senza spezzare le uova. Forse avrebbe potuto rimandarli alla Centrale in cambio di un po’ di carburante. Voi mi date due, tre bidoni di benzina, e io vi do due, tre corpi caldi, fedeli soldati, buoni boscaioli, esattamente il vostro tipo, solamente incamminati un po’ troppo nel paese dei sogni…

Sorrise, e stava tornando all’interno per parlare della proposta con Temba e gli altri, quando la sentinella appostata in cima al camino della segherìa lanciò un urlo.

— Stanno arrivando! — gridò con voce acutissima, come un bambino che giocasse a Neri e Rhodesiani.

Qualcun altro, dalla parte ovest della palizzata, cominciò a urlare a sua volta. Un colpo di fucile.

E arrivavano davvero. Cristo, come arrivavano. Ce n’erano migliaia, migliaia. Nessun suono, nessun rumore, fino a quell’urlo della sentinella; poi una singola fucilata; poi un’esplosione… una mina anti-uomo che scoppiava… e un’altra, una dopo l’altra e centinaia e centinaia di torce che venivano accese l’una dall’altra e venivano scagliate e volavano come razzi nell’aria nera e umida, e le pareti della palizzata che diventavano vive a forza di creechie che si riversavano, traboccavano, spingevano, sciamavano; migliaia di creechie.

Era come un esercito di ratti che Davidson aveva visto una volta, quando era bambino, nell’ultima Carestia, nelle strade di Cleveland, Ohio, dove era cresciuto. Qualcosa aveva cacciato i topi dalle loro tane, ed essi erano usciti alla luce del sole, formicolando su per le pareti: una coperta pulsante, fatta di pelo e occhi e piccole mani e denti, e lui aveva urlato per chiamare sua madre ed era scappato via come un pazzo; oppure era stato solo un sogno che aveva fatto da bambino?

Era importante mantenere il sangue freddo. L’elicottero era parcheggiato nel recinto dei creechie; era ancora completamente buio da quella parte, e lui vi giunse immediatamente. La porta era chiusa: la teneva sempre chiusa, nel caso a qualcuna delle sorelline fifone venisse l’idea di volarsene fino a Papà Din-Don-Dan in qualche notte buia. Gli parve che prendere la chiave, infilarla nella serratura e girarla nel verso giusto gli richiedesse un tempo esageratamente lungo, ma era solo questione di conservare la calma, e poi gli occorse un altro lungo tempo per correre fino all’elicottero e aprire il portello.

Ora Post e Aabi erano con lui. E infine si alzò il possente rumore dei rotori che sbattevano le uova, che coprivano tutti gli altri folli rumori, le voci acute che urlavano e stridevano e cantavano. Poi si sollevarono, e l’inferno si precipitò lontano da loro, sotto di loro: un recinto pieno di sorci, in fiamme.

— Occorre del sangue freddo per afferrare immediatamente la natura di una situazione di emergenza — disse Davidson. — Voi uomini avete pensato in fretta e agito in fretta. Ottimo lavoro. Dov’è Temba?

— Si è preso una lancia nello stomaco — disse Post.

Aabi, il pilota, sembrava voler guidare l’elicottero, e Davidson gli passò i comandi. Raggiunse a tentoni uno dei sedili posteriori, e si appoggiò allo schienale, per rilassarsi i muscoli. La foresta scorreva sotto di loro, nero sotto nero.

— Dove ti stai dirigendo, Aabi?

— Centrale.

— No. Noi non vogliamo andare alla Centrale.

— E allora dove vogliamo andare? — chiese Aabi, con una sorta di risolino femmineo. — New York? Pechino?

— Limitati a mantenere in volo l’elicottero per un po’ di tempo, Aabi, e vola in cerchio attorno al campo. Grandi cerchi. Fuori portata di udito.

— Capitano, ormai non c’è più nessun Campo New Java — disse Post, caposquadra dei boscaioli, un uomo solido, massiccio.

— Quando i creechie avranno finito di bruciare il campo, torneremo noi a bruciare i creechie. Ci devono essere quattromila creechie radunati in un posto solo, laggiù. Abbiamo sei lanciafiamme nel retro dell’elicottero. Diamo loro tempo una ventina di minuti. Poi cominciamo con il napalm e spariamo coi lanciafiamme a quelli che corrono via.

— Cristo — esclamò Aabi, con violenza — alcuni dei nostri potrebbero essere ancora laggiù, i creechie potrebbero avere fatto dei prigionieri, non lo sappiamo. Io non torno laggiù per bruciare forse degli esseri umani.

Non voltò indietro l’elicottero.

Davidson appoggiò la bocca del revolver contro la nuca di Aabi e disse: — Sì, invece, noi torniamo indietro; perciò fatti forza, bambino, e non darmi fastidio.

— In serbatoio c’è carburante sufficiente a portarci alla Centrale, capitano — disse il pilota. Continuava a cercare di allontanare la testa dal contatto della pistola, come se una mosca gli desse fastidio. — Ma quello è tutto. Tutto quello che abbiamo.

— Allora potremo fare un mucchio di giri. Volta direzione, Aabi.

— Penso che faremmo meglio ad andare alla Centrale, capitano — disse Post, con la sua voce stolida.

Il fatto che si dessero mano in questo modo contro di lui fece arrabbiare Davidson a tal punto che, voltata dall’altra parte la pistola che aveva in mano, scattò rapido come un serpente e colpì Post sopra l’orecchio con l’impugnatura. Il boscaiolo si ripiegò su se stesso come una cartolina d’auguri natalizi e rimase a sedere sulla poltroncina anteriore, con la testa tra le ginocchia e la mano penzolante.

— Volta direzione, Aabi — disse Davidson, con la frusta nella voce.

L’elicottero voltò, descrivendo un largo arco.

— Accidenti, dov’è il campo? Non ho mai pilotato questo elicottero di notte senza segnali da seguire — disse Aabi, parlando in un tono sordo e nasale, come se avesse il raffreddore.

— Dirigiti verso est e cerca di trovare l’incendio — disse Davidson, freddo e calmo.

Nessuno di loro aveva veramente del fegato, neppure Temba. Nessuno di loro gli era rimasto al fianco quando il cammino era diventato davvero duro. Presto o tardi tutti facevano lega contro di lui, perché non riuscivano ad affrontare le cose come faceva lui. I deboli cospirano contro il forte, il forte deve rimanere da solo e badare a se stesso. Semplicemente, era il modo in cui andavano le cose. Dov’era il campo?

Avrebbero dovuto scorgere le case incendiate a distanza di chilometri, in quella profonda oscurità, anche con la pioggia. Nulla compariva. Cielo grigio-nero, terreno nero. I fuochi dovevano essere spenti. Essere stati spenti. Che gli umani avessero respinto i creechie? Dopo che lui era scappato?