"Non era il linguaggio a impedirmi la comprensione; io conosco la sua lingua, e lui ha appreso la nostra; abbiamo fatto uno scritto delle due lingue insieme. Eppure, c’erano cose che diceva senza che io riuscissi mai a capirle. Diceva che gli umani provengono dall’esterno della foresta. Questo è abbastanza chiaro. Diceva che vogliono la foresta: gli alberi per il legno, la terra per piantarvi erbe."
La voce di Selver, per quanto ancora pacata, aveva acquistato risonanza; le persone tra gli alberi argentei erano in ascolto.
— Anche questo è chiaro, per quelli di noi che li hanno visti abbattere il mondo. Lyubov diceva che gli umani sono uomini come noi, che siamo davvero parenti, consanguinei, forse, più del Cervo Rosso con quello Grigio. Disse che provengono da un altro posto che non è la foresta; là gli alberi sono tutti tagliati; ha un sole, non il nostro sole, che è una stella.
"Tutto questo, come capite, non mi era molto chiaro. Io ripeto le sue parole, ma non so che cosa significhino. Comunque, ciò ha poca importanza. È chiaro che vogliono per sé la nostra foresta. Sono alti il doppio della nostra altezza, hanno armi che superano come portata le nostre, e di molto; lanciafiamme; navi volanti. Adesso hanno portato altre donne, e avranno dei figli.
"Ci sono forse duemila, forse tremila di loro, oggi come oggi, in maggioranza su Sornol. Ma se aspetteremo la durata di una vita o due, si moltiplicheranno; il loro numero raddoppierà, e raddoppierà ancora. Essi uccidono uomini e donne; non risparmiano coloro che chiedono la vita. Non sono capaci di cantare in gara. Hanno lasciato le proprie radici alle loro spalle, forse in quell’altra foresta da cui sono giunti, la foresta senza alberi.
"Per questo prendono veleni per dare libertà ai sogni che hanno dentro di sé, ma ciò non fa che renderli ubriachi o malati. Nessuno può dire con certezza se siano o non siano uomini, se siano o non siano pazzi, ma questo non importa. Occorre costringerli a lasciare la foresta, poiché sono dannosi. Se non vorranno andarsene, occorre cacciarli dalle Terre col fuoco, così come occorre scacciare col fuoco, dai solchi delle città, i nidi delle formiche nocive.
"Se aspetteremo, saremo noi quelli che saranno cacciati via col fumo e poi bruciati. Essi possono calpestarci come noi calpestiamo le formiche. Una volta ho visto una donna… e ciò accadde quando bruciarono la mia città, Eshreth… che si era buttata sul terreno davanti a un umano per chiedergli la propria vita, e lui le montò con i piedi sulla schiena e le ruppe la spina dorsale, e poi l’allontanò con un calcio, come se fosse un serpente morto.
"L’ho visto con i miei occhi. Se gli umani sono uomini, essi, o per loro natura o perché nessuno glielo insegna, sono uomini incapaci di sognare e di agire come uomini. Pertanto si aggirano nel loro tormento, uccidono e distruggono, spinti dagli dei del loro interno; dei che essi non vogliono mettere in libertà, e che invece cercano di sradicare e di negare. Se sono uomini, allora, poiché hanno negato i loro stessi dei, sono uomini malvagi, che hanno paura di scorgere le proprie facce nel buio. Donna-capo di Cadast, ascoltami." Selver si alzò alto e brusco tra le donne sedute.
— È tempo, ritengo, che io ritorni alla mia terra, a Sornol, a coloro che sono in esilio e a coloro che sono in schiavitù. Di’ a ciascuna persona che abbia sognato di una città che brucia di seguirmi a Broter.
Si inchinò a Ebor Dendep e lasciò il boschetto di betulle, camminando ancora zoppo, con il braccio bendato; eppure c’era una sveltezza nel suo passo, un’inclinazione della sua testa, che lo faceva parere più integro di qualsiasi altro uomo. I giovani seguirono tranquillamente i suoi passi.
— Chi è quell’uomo? — domandò la corriera di Trethat, seguendolo con lo sguardo.
— L’uomo a cui era diretto il tuo messaggio, Selver di Eshreth, un dio tra noi. Hai mai visto un dio prima d’ora, figlia?
— Quando avevo dieci anni, il Suonatore di Lira è venuto nella nostra città.
— Il Vecchio Ertel, sì. Era del mio Albero, e veniva dalle Valli del Nord, come me. Be’, ora hai visto un secondo dio, e maggiore dell’altro. Parla di lui alla tua gente, a Trethat.
— Che dio è, Madre?
— Un nuovo dio — disse Ebor Dendep con la sua voce secca e vecchia. — Il figlio dell’incendio della foresta, il fratello dell’assassinato. È colui che non rinasce. Ora vai, andate tutte, andate alla Loggia. Pensate a coloro che partiranno con Selver, pensate a dar loro del cibo da portare con sé. Lasciatemi sola per un poco. Sono piena di presentimenti come uno stupido vecchio maschio, devo sognare…
Coro Mena accompagnò Selver, quella notte, fino al punto dove s’erano visti all’inizio, sotto i salici ramati, accanto al ruscello. Molte persone intendevano seguire Selver a sud: in tutto una sessantina. Molta gente non aveva mai visto muoversi tutto insieme un gruppo così numeroso. Avrebbero destato molta sensazione, e così avrebbero chiamato a sé numerosi altri, nel loro tragitto verso il punto di attraversamento del mare per Sornol. Selver aveva fatto valere il suo diritto di Sognatore a rimanere in solitudine per quella notte. Partiva da solo. I suoi seguaci l’avrebbero raggiunto il mattino; e da allora, confuso nell’azione e nella folla, avrebbe avuto poco tempo per il moto lento e profondo dei grandi sogni.
— Qui ci siamo incontrati — disse il vecchio, fermandosi tra le fronde arcuate, tra i veli di foglie pendenti — e qui ci separiamo. Questo verrà chiamato Boschetto di Selver, senza dubbio, dalla gente che percorrerà nel futuro i nostri sentieri.
Selver non disse nulla per qualche tempo, e rimase immobile come un albero; le foglie inquiete intorno a lui incupirono il loro argento quando le nubi si addensarono sopra le stelle.
— Tu sei sicuro di me, più di me stesso — rispose infine, voce nel buio.
— Sì, sono sicuro, Selver… il sognare mi è stato insegnato assai bene, e inoltre sono vecchio. Ormai sogno ben poco per me stesso. Perché dovrei farlo? Poco mi è nuovo. E ciò che desideravo dalla vita l’ho avuto; anche di più. Ho avuto l’intera mia vita. Giorni quante le foglie della foresta. Ormai sono un tronco vecchio e cavo, solo le radici sopravvivono. E così sogno solamente le cose che sognano tutti. Non ho visioni e non ho desideri.
"Io vedo ciò che è. Io vedo maturare il frutto sul ramo. Da quattro anni continua a maturare quel frutto di un albero profondamente piantato. Tutti noi abbiamo paura da quattro anni, anche noi che abitiamo lontano dalle città degli umani e abbiamo solamente scorto le loro forme da un nascondiglio, o visto le loro navi volare su di noi, o osservato i luoghi morti dove essi hanno abbattuto il mondo, oppure udito semplici narrazioni di questi fatti. Siamo tutti spaventati.
"I bambini si destano nel sonno, piangendo a causa dei giganti; le donne non sono più disposte a partire per i loro viaggi di commercio; gli uomini delle Logge non riescono più a cantare. Il frutto della paura sta maturando. E io ti vedo intento a raccoglierlo. Tu sei il mietitore. Ogni cosa che noi non desideriamo vedere, tu l’hai conosciuta: esilio, vergogna, dolore, il tetto e le pareti del mondo cadute, la madre morta nella disperazione, i figli privi di insegnamenti, privi di carezze…
"Questo è un nuovo tempo del mondo: un tempo cattivo. E tu l’hai sofferto fino in fondo. Tu ti sei spinto più avanti. E nel punto più lontano, alla fine del cammino buio, laggiù cresce l’Albero; laggiù il frutto matura; ora tu alzi il braccio, Selver, ora tu lo cogli. E il mondo cambia interamente, quando un uomo stringe nella mano il frutto di quell’albero, le cui radici sono più profonde di quelle della foresta. Gli uomini lo riconosceranno. E riconosceranno te, così come ti abbiamo riconosciuto noi.