Ed ebbe ragione.
5
Lyubov
Era stato uno shock, incontrare Selver faccia a faccia. Mentre ritornava in elicottero alla Centrale dal villaggio ai piedi della collina, Lyubov cercava di decidere perché fosse stato uno shock, di trovare mediante l’analisi il nervo che aveva fatto un sobbalzo. Infatti, di solito, una persona non si spaventa nell’incontrare per caso un vecchio amico.
Non era stato facile indurre la donna-capo a invitarlo. Tuntar era stato il suo principale sito di studio per tutta l’estate; laggiù aveva vari eccellenti informatori ed era in buoni rapporti con la Loggia e con la donna-capo, che gli aveva permesso di prendere liberamente parte alla vita comune e di osservarla. Rimediare un vero invito da lei, grazie ai buoni uffici degli ex servitori che erano rimasti nella zona, aveva richiesto molto tempo, ma alla fine la donna aveva ceduto, così fornendogli, in accordo con le nuove direttive, una genuina "occasione predisposta dagli Athshiani stessi".
Era stata la sua stessa coscienza, più del colonnello, a insistere su questo punto. Dongh desiderava che lui andasse. Era preoccupato per la Minaccia Creechie. Disse a Lyubov di valutarla, di vedere "come reagiscono adesso al fatto che noi li lasciamo rigorosamente soli". Il colonnello sperava che la valutazione che Lyubov gli avrebbe recato si dimostrasse rassicurante. E Lyubov non sapeva decidere se il rapporto che doveva passare al colonnello dovesse rassicurarlo o no.
Una volta uscito dalla Centrale, per quindici chilometri il terreno era disboscato e i ceppi erano marciti; adesso c’era una larga e ottusa spianata di erba-fibra, grigia e filamentosa sotto la pioggia. Sotto quelle foglie irsute i piccoli arbusti seminati crescevano per la prima volta: sommacco, tremulo nano, i salviformi che, una volta cresciuti, avrebbero a loro volta protetto le piante da seme. Lasciata a se stessa, in quel clima uniforme e piovoso, quell’area si sarebbe potuta riforestare in capo a trent’anni, raggiungere nuovamente lo stato di foresta in massimo rigoglio nel giro di un secolo. Lasciata a se stessa.
Improvvisamente la foresta ricominciò, nello spazio e non nel tempo: sotto l’elicottero, il verde delle infinite tinte delle foglie copriva i lenti rigonfiamenti e le ripiegature dei monti di Nord Sornol.
Come molti terrestri, sulla Terra Lyubov non aveva mai camminato tra gli alberi selvatici, non aveva mai visto un bosco più grande di un isolato cittadino. Dapprima, su Athshe, lui si era sentito oppresso e inquieto nella foresta, soffocato dalla sua interminabile folla e incoerenza di tronchi, fronde, foglie in perpetuo crepuscolo verdastro o marrone.
La massa e il caos di difformi vite in competizione, tutte occupate a spingere e a traboccare verso l’esterno, verso l’alto, verso la luce, il silenzio costituito da molti piccoli rumori senza significato, la totale indifferenza vegetale alla presenza della ragione, tutto questo lo aveva inquietato, e, al pari degli altri, lui si era tenuto entro i confini delle radure e della spiaggia.
Ma a poco a poco aveva cominciato ad amare la foresta. Gosse lo prendeva in giro, chiamandolo signor Gibbone; e in effetti Lyubov aveva un poco l’aspetto di un gibbone, con volto scuro e tondo, braccia lunghe e capelli precocemente grigi, ma i gibboni erano estinti.
Che gli piacesse o no, come studioso di forme di vita intelligenti doveva recarsi nelle foreste a cercare quelle forme di vita; e adesso, dopo quattro anni, si trovava completamente a proprio agio sotto gli alberi: forse più a suo agio sotto gli alberi che in qualsiasi altro posto.
Ed era anche giunto ad amare i nomi dati dagli Athshiani alle loro terre e ai loro luoghi, parole sonore di due sillabe: Sornol, Tuntar, Eshreth, Eshsen… che adesso era Centralville… Endtor, Abtan, e sopra a tutto Athshe, che significava la Foresta, e il Mondo. Allo stesso modo, earth, terra, tellus significano sia il suolo che il pianeta, due significati e uno solo. Ma per gli Athshiani il suolo, il terreno, la terra non erano il luogo a cui i morti ritornano e da cui i viventi traggono vita: la sostanza del loro mondo non era la terra, bensì la foresta. L’uomo terrestre era argilla, polvere rossa. L’uomo Athshiano era ramo e radice. Essi non intagliavano figurine di se stessi nella pietra, ma solo nel legno.
Fece discendere l’elicottero, in una piccola radura a nord della città e avanzò fino a superare la Loggia delle Donne. Gli odori di una comunità Athshiana gravavano pungenti nell’aria: fumo di legna, pesce marcio, erbe aromatiche, sudore alieno.
L’atmosfera di una casa sotterranea, ammesso che un terrestre riuscisse a starci, era un raro composto di CO2 e tanfi vari. Lyubov aveva trascorso molte ore assai stimolanti dal punto di vista intellettuale ripiegato su se stesso e semisoffocato nella nauseabonda oscurità della Loggia degli Uomini di Tuntar. Ma non pareva che questa volta lo volessero invitare.
Naturalmente, gli abitanti della cittadina sapevano del massacro di Campo Smith, ora distante un mese e mezzo. Dovevano averlo saputo presto, perché le notizie si diffondevano rapidamente tra le isole, sebbene non tanto rapidamente da costituire un "misterioso potere di telepatia" come amavano credere i tagliaboschi.
E gli abitanti della cittadina sapevano anche che i milleduecento schiavi di Centralville erano stati liberati poco dopo il massacro di Campo Smith, e Lyubov era d’accordo col colonnello che i nativi potevano interpretare il secondo avvenimento come un risultato del primo. Ciò dava quel che il colonnello Dongh avrebbe definito "un’impressione erronea" ma la cosa probabilmente non aveva importanza.
L’importante era che gli schiavi fossero stati liberati. I torti che erano stati fatti non potevano venire raddrizzati, ma almeno non si continuava a farne altri. Tutti potevano ricominciare dall’inizio: i nativi senza quella perplessità, penosa e incapace di trovare risposta, sul perché gli "umani" trattassero gli uomini come animali; e lui alleggerito del fardello di dover spiegare, dell’intimo bruciore della colpevolezza irrimediabile.
Sapendo quanto valutassero la sincerità e l’assenza di sotterfugi nel parlare di argomenti spaventosi o preoccupanti, lui si aspettava che la gente di Tuntar parlasse con lui di quelle cose, con trionfo, con scuse, con gioia, o con perplessità. Ma nessuno ne parlò. Nessuno parlò molto con lui, di nessun argomento.
Lui era giunto nella cittadina nel tardo pomeriggio che era un po’ come arrivare in una città terrestre alle prime luci dell’alba. Gli Athshiani dormivano effettivamente… l’opinione dei coloni, come tante altre volte, si faceva beffe di realtà che si sarebbero potute osservare facilmente… ma il loro punto fisiologico più basso era collocato tra il mezzogiorno e le quattro del pomeriggio, mentre per i terrestri è di solito tra le due e le cinque del mattino; ed essi avevano un ciclo con due massimi di alta temperatura e di alta attività, in corrispondenza dei due crepuscoli, l’alba e la sera.
La gran parte degli adulti dormiva cinque o sei ore su ventiquattro, distribuite in numerosi sonnellini brevi; gli adepti dormivano ancor meno, fino a un minimo di due ore su ventiquattro, così, se ci si limitava a dare l’etichetta di "pigrizia" ai loro brevi sonni e ai loro stati di sogno, si poteva dire che non dormivano mai.
Era molto più facile fare così che comprendere ciò che essi facevano in realtà. In quel momento, a Tuntar, le cose stavano appena ricominciando a rimettersi in moto dopo il rallentamento della sera.
Lyubov notò la presenza di molti estranei. Essi lo fissarono, ma nessuno si avvicinò; erano delle semplici presenze che camminavano lungo altri sentieri, nell’ombra delle grandi querce. Alla fine, sul suo cammino giunse qualcuno che lui conosceva: Sherrar, la cugina della donna-capo, una vecchia che aveva poca importanza e poca intelligenza.