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E poi, che altro?

Selver avrebbe potuto fuggire. Era rimasto, prima come un valletto, poi… grazie a uno dei pochi privilegi utili di Lyubov in qualità di Specialista… come Assistente Scientifico, ancora chiuso a chiave la notte con tutti gli altri creechie nel recinto… i Quartieri del Personale Lavorativo Volontario Autoctono.

«Posso portarti a Tuntar con l’elicottero e lavorare con te laggiù» gli aveva detto Lyubov, la terza o quarta volta che aveva parlato con Selver. «Per l’amor di Dio, perché vuoi restare qui?»

E Selver aveva risposto: «Mia moglie Thele è nel recinto».

Lyubov aveva cercato di farla liberare, ma lei era in forza alla cucina del Quartier Generale, e i sergenti che comandavano la cucina si opponevano a ogni interferenza dei "pezzi grossi" e degli "specialisti". Lyubov doveva procedere con i piedi di piombo, per evitare che scaricassero sulla donna il loro risentimento.

Tanto la donna quanto Selver parevano disposti ad aspettare pazientemente fino al momento in cui tutti e due insieme potessero venir fatti evadere o liberati. Maschi e femmine creechie erano rigorosamente segregati nei recinti… perché, nessuno pareva saperlo… e moglie e marito avevano raramente la possibilità di vedersi.

Lyubov riuscì a organizzare qualche loro incontro nella baracca che aveva tutta per sé alla periferia nord del campo. E proprio una volta che Thele tornava al Quartier Generale dopo uno di questi incontri, Davidson l’aveva vista ed era stato evidentemente colpito dalla sua grazia fragile e spaventata. Se l’era fatta portare nel proprio alloggio, quella notte, e l’aveva violentata.

Nell’atto, l’aveva uccisa; la cosa era già accaduta altre volte, per effetto della diversità fisica; oppure era stata lei stessa che aveva cessato di vivere. Al pari di taluni terrestri, gli Athshiani possedevano il segreto dell’autentico desiderio di morte, e potevano smettere di vivere con un atto di volontà.

Nell’uno o nell’altro caso, era stato Davidson a ucciderla. Omicidi come quello erano già avvenuti in precedenza. Ciò che non era mai avvenuto in precedenza era ciò che aveva poi fatto Selver, due giorni dopo la sua morte.

Lyubov era arrivato solo nelle fasi finali. Ricordava ancora i suoni; lui stesso che correva lungo la Strada Principale sotto la rovente luce del sole; la polvere, il gruppo di uomini. Il tutto era durato al massimo cinque minuti: un tempo assai lungo per una lotta omicida.

Quando Lyubov era giunto, Selver era accecato dal sangue, era una sorta di giocattolo con cui Davidson si divertiva, eppure si era rimesso in piedi e stava ritornando all’attacco, non con la rabbia del guerriero impazzito, ma con la disperazione dell’intelligenza. E continuava ad attaccare.

Era Davidson quello che infine, portato alla rabbia dalla paura, a causa di quella terribile ostinazione, aveva sbattuto Selver a terra con un pugno, aveva fatto un passo avanti e aveva sollevato il piede per schiacciargli il cranio sotto gli stivali. Mentre stava per calare il piede, Lyubov aveva fatto irruzione nel cerchio di uomini.

Aveva fermato la lotta… infatti, per quanto fosse potuta essere grande la sete di sangue dei dieci o dodici uomini che avevano assistito alla scena, quella sete era ormai soddisfatta, ed essi avevano aiutato Lyubov a fermare Davidson… e da allora in poi, Lyubov aveva odiato Davidson, ed era stato odiato da lui, poiché si era interposto tra l’uccisore e la sua morte.

Poiché infatti, se è tutto il resto dell’umanità a venire ucciso dal suicida, è se stesso che l’omicida uccide; solamente, lui lo deve rifare ancora, e ancora, e ancora.

Lyubov aveva raccolto da terra Selver, un peso leggerissimo tra le sue braccia. Il volto mutilato aveva premuto sulla sua camicia, e il sangue vi era penetrato fino a bagnargli la pelle.

Aveva portato Selver al proprio bungalow, gli aveva steccato il polso fratturato, aveva fatto tutto il possibile per la sua faccia, l’aveva tenuto nel proprio letto, una notte dopo l’altra aveva cercato di parlargli, di giungere fino a lui nella solitudine del suo dolore e della sua vergogna. Si era trattato, naturalmente, di una cosa che andava contro i regolamenti.

Nessuno gli aveva fatto notare i regolamenti. E neppure aveva avuto bisogno di farlo. Lui sapeva di avere messo a repentaglio la poca simpatia di cui godeva presso gli ufficiali della colonia.

Aveva fatto sempre attenzione a tenersi dalla giusta parte del Quartier Generale, protestando solo di fronte ai casi estremi di brutalità contro gli indigeni, usando la persuasione e non la provocazione, e cercando di conservare le poche briciole di potere e di influenza da lui possedute.

Non poteva evitare lo sfruttamento degli Athshiani. Era molto peggio di quanto non gli avesse fatto credere il suo tirocinio, ma poteva fare poco, a tal riguardo, ora come ora. I suoi rapporti all’Amministrazione e al Comitato per i Diritti avrebbero potuto… dopo il viaggio di andata e ritorno, cinquantaquattro anni… avere qualche effetto; la Terra avrebbe potuto perfino decidere che la politica di Colonia Aperta per il pianeta Athshe era un grave errore. Meglio cinquantaquattro anni che mai. Se si fosse perso la tolleranza dei suoi superiori, essi avrebbero potuto censurare o invalidare i suoi rapporti, e allora non ci sarebbe stata alcuna speranza.

Ma era troppo arrabbiato, ora, per continuare con quella strategia. Al diavolo gli altri, se insistevano nel voler vedere le sue attenzioni verso un amico come un insulto alla Madreterra e un tradimento della colonia. Se lo avessero etichettato "l’amante degli alieni", la sua utilità per gli Athshiani sarebbe svanita; ma non poteva collocare al di sopra dei pressanti bisogni di Selver un bene collettivo che era solo possibile. Non puoi salvare un popolo vendendo il tuo amico.

Davidson, stranamente infuriato dalle piccole ferite che Selver gli aveva arrecato e dall’interferenza di Lyubov, era andato in giro a dire che intendeva farla finita con quel creechie ribelle; e certo l’avrebbe fatto, se ne avesse avuto la possibilità. Lyubov rimase con Selver notte e giorno per due settimane, e poi lo portò via dalla Centrale e lo fece scendere in una città della costa occidentale, Broter, dove Selver aveva dei parenti.

Non c’erano penalità per chi aiutasse gli schiavi a fuggire, poiché gli Athshiani non erano schiavi in nessun senso, se non di fatto: erano Personale di Lavoro Autoctono Volontario. Lyubov non fu neppure rimproverato. Ma gli ufficiali regolari nutrirono una sfiducia totale, invece che parziale, nei suoi confronti, da allora in poi; e anche i suoi colleghi dei Servizi Speciali, gli esobiologi, i coordinatori agricoli e forestali, gli fecero capire, varie volte, che si era comportato in modo irrazionale, donchisciottesco o stupido.

«Credevi di venire a un picnic?» gli aveva domandato Gosse.

«No, non credevo che fosse nessun porco picnic» aveva risposto Lyubov, sgarbato.

«Non capisco perché un esperto di forme d’intelligenza si voglia legare volontariamente a una Colonia Aperta. Sai che la gente che studi finirà per essere schiacciata, e probabilmente spazzata via. È il modo in cui vanno le cose. È la natura umana, e certo saprai che non puoi cambiarla. Allora, perché venire a osservare il processo? Per masochismo?»

«Non so che cosa sia la "natura umana". Forse lasciare descrizioni di ciò che spazziamo via fa parte della natura umana… E poi, è forse più piacevole, per un ecologo?»

Gosse aveva ignorato queste parole. «D’accordo, scrivi pure le tue descrizioni. Ma tienti fuori della mischia. Un biologo che studia una colonia di ratti non ci mette dentro le mani per salvare dei singoli ratti che gli sono simpatici e che corrono dei pericoli, lo sai.»