Non dormiva da quattro giorni, e non rimaneva fermo a sognare da un tempo ancora più lungo… non sapeva esattamente da quanto. Aveva agito, parlato, viaggiato, fatto piani notte e giorno fin da quando aveva lasciato Broter con i suoi seguaci venuti da Cadast.
Era andato da una città all’altra parlando al popolo della foresta, annunciando loro la nuova cosa, svegliandoli dal sogno e portandoli nel mondo, predisponendo tutto in modo che la cosa venisse fatta quella notte, parlando, parlando sempre e ascoltando altri parlare, mai in silenzio e mai solo.
Gli altri l’avevano ascoltata, l’avevano sentita ripetere ed erano giunti fino a lui per seguirlo, e per seguire la nuova via. Avevano raccolto nelle loro mani il fuoco di cui avevano paura: avevano raccolto nelle loro mani il dominio sul sogno cattivo: e avevano liberato sul nemico la morte che essi temevano. Tutto era stato fatto così come, secondo le sue parole, doveva essere fatto. Tutto si era svolto come aveva detto lui.
Le Logge e molte abitazioni degli umani erano state bruciate, le loro navi volanti erano state bruciate o rotte, le loro armi rubate o distrutte; le loro femmine erano morte. I fuochi si stavano spegnendo, la notte diventava assai scura, guastata dal fumo. Selver non riusciva quasi a vedere; alzò gli occhi verso l’est, chiedendosi se l’alba fosse prossima. Inginocchiato laggiù nel fango tra i morti, pensò: Questo è ora il sogno, il sogno cattivo. Io pensavo di guidarlo, ma è stato lui a guidare me.
Nel sogno, le labbra di Lyubov si mossero un poco contro il palmo della sua mano; Selver abbassò gli occhi e vide che le palpebre del morto erano aperte. Il riflesso dei fuochi morenti luccicava sulla superficie degli occhi di Lyubov. Dopo un poco, Lyubov pronunciò il nome di Selver.
— Lyubov, perché sei rimasto qui? Ti avevo detto di allontanarti dalla città questa notte. — Così Selver parlò nel sogno, seccamente, come se fosse adirato nei confronti di Lyubov.
— Sei tu il prigioniero? — disse Lyubov, debolmente e senza sollevare la testa, ma con una voce così normale che Selver pensò, per un istante, che quello non fosse il tempo del sogno, ma invece il tempo del mondo, la notte della foresta. — Oppure lo sono io?
— Nessuno, entrambi, come posso saperlo? Tutti i motori e le macchine sono bruciati. Tutte le donne sono morte. Abbiamo lasciato fuggire gli uomini, se hanno voluto farlo. Ho detto di non dare fuoco alla tua casa, i libri non hanno subito danni. Lyubov, perché tu non sei come gli altri?
— Io sono come loro. Un uomo. Come loro. Come te.
— No, tu sei diverso…
— Io sono come loro. E così lo sei tu. Ascolta, Selver. Non continuare. Non devi continuare a uccidere altri uomini. Devi tornare indietro… tornare a ciò che è tuo… alle tue radici.
— Quando la tua gente se ne sarà andata, allora il sogno cattivo si fermerà.
— Adesso! - disse Lyubov, cercando di sollevare la testa, ma aveva la schiena spezzata.
Alzò gli occhi verso Selver, aprì le labbra per parlare. Il suo sguardo cadde e si fissò sull’altro tempo, e le sue labbra rimasero socchiuse, senza parlare. Il respiro sibilò un poco nella sua gola.
Qualcuno chiamava il nome di Selver: molte voci lontane, che continuavano a ripeterlo.
— Non posso stare con te, Lyubov! — disse Selver tra le lacrime e, quando non ebbe risposta, si alzò in piedi e cercò di correre via.
Ma nell’oscurità del sogno poteva solo camminare molto lentamente, come una persona che attraversava a guado l’acqua profonda. Lo Spirito del Frassino camminava davanti a lui, più alto di Lyubov o di qualsiasi umano, alto come un albero, senza volgere verso di lui la sua bianca maschera. E, mentre lo seguiva, Selver parlò a Lyubov: — Torneremo indietro — disse. — Io tornerò indietro. Adesso. Torneremo indietro, te lo prometto!
Ma il suo amico, l’umano gentile che gli aveva salvato la vita e che aveva tradito il suo sogno, Lyubov, non rispose. Camminava in qualche punto della notte, accanto a Selver, invisibile e leggero come la morte.
Un gruppo di persone di Tuntar incappò in Selver che vagava nella notte e piangeva e parlava, dominato dal sogno: lo presero con sé nel loro ritorno a Endtor.
Nella Loggia laggiù rimediata alla meglio… una tenda sull’argine del fiume… Selver giacque, folle e impotente, per due giorni e due notti, mentre i Vecchi Uomini si prendevano cura di lui. Per tutto quel periodo le gente aveva continuato a giungere a Endtor e poi ad allontanarsene, ritornando al Luogo di Eshsen che era stato chiamato Centrale, seppellendo i loro morti laggiù e i morti stranieri; dei loro più di trecento, degli altri più di settecento. C’erano circa cinquecento umani chiusi nel campo di concentramento, il recinto dei creechie, il quale, dato che era vuoto e isolato, non era stato bruciato. Altrettanti umani erano fuggiti: alcuni di essi avevano raggiunto i campi dei tagliaboschi, molto più a sud, che non erano stati attaccati; coloro che ancora si nascondevano o si aggiravano nelle foreste o nelle Terre Tagliate venivano ricercati.
Alcuni venivano uccisi, poiché molti dei più giovani cacciatori, maschi e femmine, udivano ancora solamente la voce di Selver che diceva: Uccideteli. Altri avevano lasciato alle proprie spalle la notte dell’uccisione, come se fosse stata un incubo, il sogno cattivo che doveva essere compreso perché non dovesse più ripetersi; e costoro, quando si trovavano di fronte a un umano assetato e sfinito che si nascondeva impaurito in un cespuglio, non erano capaci di ucciderlo. In tal modo finiva a volte che era lui a ucciderli.
C’erano gruppi di dieci e venti umani, armati di asce da boscaioli e pistole, sebbene poche di esse fossero ancora cariche; questi gruppi venivano seguiti fino a quando un numero sufficiente di cacciatori non si fosse raccolto nella foresta intorno a loro, poi venivano sopraffatti, legati e riportati a Eshsen.
Vennero tutti catturati nel giro di due giorni o tre, poiché tutta quella parte di Sornol pullulava di gente della foresta: non c’era mai stata a memoria d’uomo una riunione di persone, in un solo luogo, che fosse grande anche solo la metà o la decima parte di quella; alcuni continuavano ancora a giungere da altre città e dalle altre Terre, altri cominciavano già a tornare a casa.
Gli umani che venivano catturati venivano messi insieme con gli altri nel recinto, sebbene esso fosse sovraffollato e le sue capanne fossero troppo piccole per gli umani. Veniva data loro acqua, venivano nutriti due volte al giorno, e guardati da duecento cacciatori armati, notte e giorno.
Nel pomeriggio seguito alla Notte di Eshsen, una nave volante giunse strepitando dall’est e volò bassa, come se volesse atterrare; poi schizzò in alto come un uccello da preda che avesse mancato la sua vittima, e volò in cerchio intorno al campo d’atterraggio distrutto, la città ancora fumante, le Terre Tagliate.
Reswan si era premurato di distruggere tutte le radio, e forse era stato il silenzio della radio a far giungere l’elicottero da Kushil o Rieshwel, dove c’erano tre piccole città degli umani. I prigionieri del recinto uscirono di corsa dalle capanne e gridarono in direzione della macchina ogni volta che questa si portò strepitando al disopra della loro testa; una volta la nave gettò un piccolo oggetto legato a un paracadute, che toccò terra nel recinto; infine si allontanò strepitando nel cielo.
Erano rimaste quattro navi come quella, ora, su tutto Athshe: tre in Kushil e una in Rieshwel, tutte del tipo piccolo che poteva portare quattro umani; avevano anche mitragliatrici e lanciafiamme, e opprimevano come un macigno la mente di Reswan e degli altri, mentre Selver era perduto per loro, intento a camminare lungo i misteriosi sentieri dell’altro tempo.